Basta eredi «plug&play»: la successione in azienda va preparata con largo anticipo. Ospite dell’evento organizzato da Money.it e Swiss Chamber il 5 ottobre a Milano. Ultimi posti.
Le statistiche sembrano spietate, nel presentare numeri che danno torto ai giovani. Soltanto un’azienda su quattro sopravvive alla seconda generazione, meno di una su sei la terza, il più delle volte affossata dall’ostinazione di un padre che pretende di lasciarla nelle mani di un figlio inadeguato.
O forse no. La chiave di lettura potrebbe non essere così semplice e semplicistica, come cercherà di mettere in luce l’evento promosso da Money.it e Swiss Chamber il prossimo 5 ottobre a Milano, il cui titolo è già uno spiraglio di luce. «Strumenti e opportunità per le imprese», ore 9.30 nella sede della Camera di Commercio Svizzera in Italia: a significare che quello che spesso si considera un pericolo, il ricambio generazionale, potrebbe essere invece un’occasione, un momento di svolta più che positiva. A patto di affrontarla nel modo giusto, e con le giuste competenze.
Eccola, la parola chiave. La questione è tutta lì: nel comprendere quali siano, così diverse da quelle di un tempo, e soprattutto a chi chiederle, se a un figlio o a un manager. Indispensabile un’analisi attenta e senza pregiudizi, osserva Alessandro Motta di Mazars, partnership internazionale integrata e specializzata in servizi professionali di audit, tax, legale advisory; altrimenti il fallimento è dietro l’angolo, pressoché inevitabile.
Questione di skill che mancano o di una fame imprenditoriale che, placata attraverso il coraggio dei padri, è venuta meno?
«Il problema è duplice. Dobbiamo anzitutto tener presente che oggi il mondo è diverso e più competitivo rispetto a quello che fu dei padri. Spesso i figli si trovano davanti a un’azienda basata su meccanismi ed equilibri «vecchi», e che magari non hanno affrontato quel «ricambio» tecnologico utile a far girare bene la macchina. Non è detto che il figlio manchi di skill; magari è anzi giovane e talentuoso, ha i numeri giusti e le competenze che servono, ma si ritrova a fare i conti con una zavorra derivata dall’incapacità dei padri di aggiornare l’impresa. D’altro canto, esiste anche il caso del figlio che non possiede i requisiti necessari, ma ha un padre che pretende di affidargli a ogni costo la guida dell’azienda. Ogni caso va affrontato caso per caso; generalizzare è un errore».
Come capire a quale situazione si è dinnanzi: se il figlio è capace ma affossato dal padre o invece ha delle mancanze che il padre non è disposto a riconoscere?
«Attraverso un assessment delle competenze, condotta da professionisti: è fondamentale per decidere come agire. Un padre deve anche capire che un figlio non è plug&play: c’è bisogno che il giovane faccia un percorso di gavetta, si formi sul campo, magari anche facendo palestra in un’altra azienda, dove respirare un’aria nuova e acquisire competenze differenti da trasferire poi in quella che è chiamato, eventualmente, a ereditare. Un’esperienza in un’azienda managerializzata può essere molto utile e allargare orizzonti. Si tratta, senza dubbio, di un maturity model che richiede molta fatica e anche la volontà e la disponibilità, da parte dei figli, a fare sacrifici».
Sono capaci o sono vittime della presunzione di essere «figli di»?
«Anche in questo caso, non bisogna generalizzare. Conosco figli che, nonostante siano cresciuti in una realtà privilegiata, hanno mantenuto la fame, la voglia e la grinta del padre. Altri che si sono imborghesiti. Quando manca l’appetito, la soluzione è una: meglio affidare l’azienda a un manager e lasciare al figlio solo la proprietà».
Le competenze si possono acquisire? O c’è chi, per quanti sforzi faccia, non le avrà?
«La competenze devono essere acquisite. L’assessment serve proprio a verificare la situazione e a stabilire un percorso di formazione. Bisogna però capire se il figlio è in grado».
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Nel dualismo fra la cultura del fare, propria del padre, e del gestire, di epoca moderna, un punto di equilibrio è possibile?
«La cultura del fare appartiene a chi ha costruito la macchina e sa come farla funzionare. Per quanto riguarda invece il gestire, bisogna partire da zero e vivere l’azienda, altrimenti la gestione può diventare davvero problematica. L’azienda non è fatta solo di un imprenditore; e l’imprenditore ha bisogno di saper gestire anche le prime, le seconde e terze linee di uomini che partecipano alla gestione. Deve conoscerle e conquistarne la fiducia. Quando manca, le chance di successo si riducono. Presentarsi come il capo non è sufficiente».
Un altro dualismo delicato riguarda famiglia e proprietà. Fino a che punto l’equilibrio familiare deve entrare in azienda e quando va lasciato fuori?
«La famiglia non deve entrare in azienda; o, quantomeno, deve farlo in punta di piedi. Perché l’azienda non è la famiglia: l’azienda è tante famiglie. Se si valuta che i membri della famiglia non sono adeguati, l’imprenditore ha il dovere di prendere la decisione di consentire al figlio di fare l’azionista e di affidarsi, per la gestione, a un amministratore professionista, che faccia prosperare l’azienda remunerando adeguatamente gli eredi. È un percorso di managerializzazione a volte inevitabile: l’imprenditore ha un ruolo sociale, non può ignorarlo a vantaggio di un individuo solo. Fare l’imprenditore è una forma mentis: è fondamentale non smettere mai di esserlo, per nessun motivo o persona».
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