Aperto a Washington (era ora!) il Museo delle Vittime del Comunismo

Glauco Maggi

21/06/2022

Dopo 30 anni, dalla firma di Bill Clinton, è stato inaugurato in America il museo delle Vittime del Comunismo.

Aperto a Washington (era ora!) il Museo delle Vittime del Comunismo

Finalmente, anche in America l’orrore secolare del comunismo mondiale ha un Museo tutto per sé. È stato inaugurato la scorsa settimana a due passi dalla Casa Bianca, epilogo di una lunga gestazione che ha preso 30 anni, dalla firma dell’allora presidente democratico Bill Clinton sotto la legge per la creazione di una Fondazione per la istituzione di un Memoriale dedicato alle Vittime del Comunismo (anno 1993, con voto unanime del Congresso), alla inaugurazione formale del Museo, mercoledì scorso, con i discorsi del presidente della stessa Fondazione Andrew P. Bremberg (politico Repubblicano che ha lavorato con George Bush, Mitch McConnell, Donald Trump) e di due politici est europei, Szabolcs Takacs, ambasciatore ungherese presso gli Stati Uniti, e Piotr Glinski, vice primo ministro polacco. Sponsor principale dell’iniziativa è la Heritage Foundation, uno dei pensatoi più autorevoli nella galassia conservatrice e pro libero mercato americana.

All’evento per l’apertura del Museo hanno partecipato molti individui e famiglie che hanno combattuto contro i regimi comunisti omicidi, e che si sono mobilitati per organizzare l’opposizione. C’erano Wang Dan e Jianli Yang, due dei leader degli studenti in piazza Tienanmen a Pechino nel 1989, quando l’esercito cinese uccise brutalmente più di 2mila manifestanti pacifici che chiedevano democrazia e libertà in Cina.

Ci sono reperti di quella storica protesta nel museo, comprese alcune delle bandiere della libertà fatte a mano dagli studenti”, ha raccontato nella cronaca della inaugurazione, pubblicata dal giornale conservatore Washington Examiner, Hans von Spakovsky, membro autorevole della Heritage, ex commissario della Commissione Federale delle Elezioni ed ex consulente legale per i diritti civili presso il Dipartimento di Giustizia.

C’erano anche le famiglie dei combattenti per la libertà che organizzarono la prima rivolta contro l’Urss nel 1956 in Ungheria, quando la Nato e gli Alleati rimasero semplicemente a guardare, ignorando le loro richieste di aiuto mentre i carri armati russi reprimevano la ribellione e arrestavano e uccidevano spietatamente tutte le persone coinvolte”, ha riportato von Spakowsky, aggiungendo questo amaro commento: “Mentre guardavo un video dei combattimenti nelle strade di Budapest che si trova nel museo, non pensavo ad altro se non alla differenza che ci sarebbe stata se quei patrioti ungheresi fossero stati equipaggiati con missili Javelin e avessero distrutto tanti carri armati sovietici come gli ucraini stanno facendo oggi”.

Nel museo, la denuncia del regime comunista emerge anche dalla storia delle opere esposte, non solo dal contenuto. Nel 1953, un pittore ucraino, Nikolai Getman, fu rilasciato dal gulag sovietico, dove aveva trascorso otto anni per essere stato presente a un incontro in cui qualcuno aveva disegnato una caricatura di Josef Stalin. I dipinti furono contrabbandati fuori dalla Russia nel 1997 perché Getman temeva che il governo russo post-sovietico li avrebbe distrutti per nascondere il passato. Secondo von Spakowsky, “i quadri sono inquietanti. Sono una rappresentazione visiva degli scritti di Aleksandr Solzhenitsyn, che con le parole aveva fatto emergere questo terribile sistema di reclusione di massa”.

I crudi dipinti di Getman mostrano tutto, dal trasporto dei prigionieri verso i campi sui camion e sulle navi senza riscaldamento alle condizioni di vita orribili nel gulag. Si assiste alla routine brutale con cui venivano trattati i prigionieri, e la loro fragile esistenza viene catturata con effetti impressionanti per il realismo che hanno: un risultato rimarchevole se si considera che tutte le scene sono state dipinte a memoria. In una, c’è lo strazio dei volti disperati di un gruppo di prigionieri prelevati dalle loro baracche nel cuore della notte e giustiziati dall’NKVD (precursore del KGB), la polizia segreta che gestiva i gulag. Tutti i prigionieri sapevano che se venivano portati fuori dalla loro baracca nel cuore della notte, non vi tornavano più.

Alla inaugurazione del museo non era presente alcun rappresentante dell’attuale amministrazione Biden, un segno non equivoco della trasformazione ideologica del partito che fu dei Kennedy anticastristi, nella sua nuova versione dei Bernie Sanders e delle Alexandria Ocasio Cortez, i due leader marxisti che guidano la corrente di fatto più influente sulla Casa Bianca, contando oltre 100 parlamentari progressisti/socialisti.

La nascita del Museo cade nel mezzo della guerra contro il popolo ucraino scatenata da Putin, erede del comunismo sovietico, e l’opinione pubblica in America parteggia per gli oppressi. Il messaggio culturale-politico lanciato dal Museo è quindi di estrema attualità oggi, così come lo era quando George W. Bush inaugurò il Memoriale dedicato alle Vittime del Comunismo che era stato istituito, come Fondazione, dalla legge del Congresso nel lontano 1993. Il giorno scelto per l’inaugurazione del Memoriale, 12 giugno 2007, era altamente simbolico: il ventennale del discorso (“Gorbatchov, butta giù quel muro”) con cui il presidente Ronald Reagan aveva messo in ginocchio il Cremlino e si avviava a vincere la Guerra Fredda.

Ci sono voluti altri 15 anni, e alla fine enti e individui privati europei e americani, con il concorso di alcuni governi di popoli che hanno sperimentato sulla loro pelle il comunismo (Ungheria, Polonia, Estonia, Lituania, Latvia) hanno raccolto i fondi necessari per la creazione del Museo. Il governo Biden non ha dato un centesimo, ha scritto von Spakowsky.

Eppure il comunismo storico, a differenza del nazionalsocialismo genocida di Hitler degli Anni ’30 e ’40 del secolo scorso, non è stato estirpato dalla società per la vergogna delle centinaia di milioni di vittime che ha provocato. Trova sempre nuovi adepti, il che rende il dovere di denunciare i suoi scempi ancora più pressante.

Le vittime da non dimenticare”, aveva detto Bush alla inaugurazione del Memoriale nel 2007 davanti a centinaia di persone sopravvissute alle repressioni (tra gli altri, il poeta vietnamita Nguyen Chi Thien, il prigioniero politico cinese Harry Wu, il giornalista anticomunista lituano Nijolė Sadūnaitė), “comprendono gli innocenti ucraini morti di fame durante la Grande Carestia di Stalin; i russi uccisi nelle purghe di Stalin; i lituani, lettoni ed estoni caricati su carri bestiame e deportati nei campi di sterminio artici dai comunisti sovietici.

E, ancora, i cinesi uccisi per le politiche del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale di Mao; i cambogiani eliminati nei campi di sterminio di Pol Pot; i tedeschi dell’est falciati dai mitra mentre tentavano di scalare il muro di Berlino per raggiungere la libertà; i polacchi massacrati nella foresta di Katyn; gli etiopi vittime durante il «terrore rosso»; gli indiani Miskito assassinati dalla dittatura sandinista del Nicaragua; e i cubani che sono annegati cercando di fuggire via mare dalla tirannia. Il presidente Bush disse anche: "Non sapremo mai i nomi di tutti coloro che sono morti, ma in questo luogo sacro le vittime sconosciute del comunismo saranno consacrate alla storia e ricordate per sempre. Diamo vita a questo memoriale perché abbiamo un obbligo nei confronti di coloro che sono morti, riconoscere le loro vite e onorare la loro memoria”.

Erano parole di verità valide 15 anni fa, e non hanno perso purtroppo un grammo del loro valore di denuncia della perversione liberticida della dottrina marxista neppure al giorno d’oggi. Basta pensare al ruolo del partito comunista cinese nella persecuzione di oltre un milione di cittadini appartenenti alla minoranza musulmana degli Uyghuri, repressi e incarcerati nei campi di lavoro, privati della loro identità culturale, non solo della libertà.

Di nazismo ce n’è stato uno, è finito, e va ricordato in eterno perché non rinasca mai. Il comunismo, purtroppo, non è mai morto. Fare un museo per denunciare i suoi crimini nella patria della democrazia e della libertà, e che tanti soldati ha sacrificato nelle guerre contro i regimi comunisti nel passato (dal Vietnam alla Corea, tra gli altri) è stata impresa ardua. Ma ora il Museo c’è, e con le iniziative culturali che ha in programma nelle scuole e nella società punta a essere uno strumento culturale di condanna dei comunismi vecchi, e un baluardo ideologico contro i comunismi attuali e quelli che verranno.

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