In due giorni sciagurati, con i due comizi che hanno prodotto mercoledì scorso l’assalto violento (5 morti) a Capitol Hill di centinaia di ultrà pro Trump (stima del Washington Post) il presidente sconfitto in novembre nelle urne ha dilapidato i 73 milioni di voti degli americani che volevano la sua riconferma.
Si è così distrutto politicamente, cancellando la speranza, che lui pure sembrava coltivare, di ripresentarsi nel 2024 come candidato repubblicano. Non è stata l’America dei Democratici che, oggi, l’ha seppellito. E’ stata la netta e non equivoca condanna del partito Repubblicano da una parte, e dell’establishment del mondo conservatore giudiziario e intellettuale dall’altra, a sancire la fine del Trump “suicida".
E’ giusto partire dai giudici della Corte Suprema. Ce ne sono sei su nove di orientamento conservatore, e tre di loro - Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Barrett - erano stati nominati da Trump, osteggiati in Senato dai DEM e accusati di essere suoi lacchè: si è visto, con soddisfazione di tutti per la salute istituzionale del Paese e orgoglio di chi aveva apprezzato queste scelte, che anche questi giudici, insieme ad altri di livello statale sempre nominati da Trump, hanno respinto le cause intentate dalla campagna del presidente per tentare di invertire illegalmente l’esito del voto senza prove sufficienti di truffe.
E il suo dovere l’ha fatto anche Bill Barr, ministro della Giustizia e quindi uomo nominato da Trump, che prima di ritirarsi in anticipo dal governo a metà dicembre aveva respinto ufficialmente la pretesa degli avvocati di Trump di insistere nelle indagini avviate dal suo ministero sulle frodi ai seggi. Ce ne sono state in verità alcune, legate all’uso massiccio del “voto per posta”, ma Barr ha ritenuto che il tenerne conto non avrebbe comunque cambiato il verdetto. Il sistema della giustizia ha insomma costituito un baluardo che deve dare fiducia: il terzo pilastro del potere ha svolto correttamente nella sostanza il suo ruolo di difendere la Costituzione, imponendo il rispetto della sovranità del voto popolare.
Trump allo sbando
L’autorevole pensatoio conservatore Hoover Institution, sul fronte accademico, ha condannato l’azione di Trump per bocca del suo direttore, l’ex Segretario di Stato Condoleeza Rice, Repubblicana e prima nera a occupare quella carica con George W. Bush. Il colpo politico ferale per il presidente, però, è quello venuto dal suo più fidato alleato, Mike Pence. Il vicepresidente, in qualità di presidente del Congresso congiunto che doveva ratificare i risultati del Collegio Elettorale nazionale, si è opposto alla pretesa di Trump di boicottare la seduta decisiva, di fatto frustrando le ultime assurde speranze dello sconfitto.
I comizi citati sopra hanno portato alla pagliacciata tragica dei manipoli di “vichinghi” e di suprematisti “orgogliosi”, con la violazione del Palazzo della democrazia USA e la vergogna in tv e sui media mondiali dei cappellini MAGA e delle bandiere “Vota Trump” insieme a qualche vessillo confederato. Che la polizia di Capitol Hill abbia consentito prima lo scempio della occupazione violenta dei facinorosi, e poi abbia gestito i disordini in una maniera indecente che ha lasciato sul campo cinque vittime evitabili, è un altro aspetto che meriterà inchieste approfondite. Peraltro sono già in corso, e porteranno alla caduta di molte altre teste oltre a quella del capo del Corpo che si è dimesso subito.
Ma lo spettacolo, figlio delle parole di Trump e del suo peso da “aizzatore in capo”, è stato “un punto di svolta, di non ritorno” per i Repubblicani, come ha detto la ministra dell’Educazione Betsy DeVos, tra i primi membri del governo a dimettersi. Con lei se n’è subito andata la ministra dei Trasporti Elaine Chao, moglie del leader repubblicano del Senato Mitch McConnell, a sua volta severissimo nel condannare l’azione irresponsabile di Trump.
Sono solo le prime dimissioni, e nelle prossime ore le denunce e gli addii si intensificheranno. Sono atti di valore simbolico, in verità, poiché il 20 gennaio il cambio del potere sarà proclamato formalmente con l’uscita obbligata di scena dei Repubblicani inseriti oggi a tutti i livelli dell’amministrazione, ma il peso pratico-politico è enorme. Lo sgretolamento del regime trumpiano sta avvenendo nel caos di una transizione irrituale e drammatica, ma se il partito pagherà un prezzo alto è difficile oggi da quantificare, chi non ha più alcun capitale politico credibile da spendere è proprio Trump. Forse se n’è reso conto lui stesso quando ha rilasciato venerdì parole di condanna dei moti violenti, fuori tempo massimo e patetiche. Nel contempo, ha ridicolmente promesso un “ordinato processo di passaggio delle consegne” e, quasi contemporaneamente, ha fatto sapere che non assisterà il 20 alla cerimonia di insediamento di Biden.
Se Trump è irreparabilmente allo sbando, la cronaca terminale della sua inevitabile uscita di scena è però ancora da scrivere. Lunedì 11 gennaio, secondo una fonte del partito di Biden, è annunciata la presentazione alla Camera di una nuova documentazione per l’impeachment del presidente, motivata dal famigerato discorso che ha dato il via alla scorribanda in Congresso, visto come un “incitamento alla insurrezione”. In alternativa, potrebbe esserci il ricorso al 25esimo emendamento, ventilato da Nancy Pelosi e altri, che prevede la rimozione di un presidente “incapacitato” a svolgere il suo ruolo per motivi di salute. Ma per questa seconda soluzione occorre la volontà del vice presidente, e di una maggioranza di ministri, che devono certificare l’infermità: sarebbe cioè il GOP a detronizzare Trump, scena da tragedia greca ardua da immaginare. E non necessaria, visti i pochi giorni che mancano alla fine naturale della presidenza.
Che cosa farà il partito Democratico?
Il Partito Democratico politicamente è ebbro di successo. Il 5 gennaio il doppio ballottaggio vinto in Georgia ha dato ai DEM la maggioranza in Senato, dopo la conferma del controllo della Camera e la conquista della Casa Bianca. L’odio per Trump potrebbe forzarli a voler stravincere, cercando una sua eliminazione radicale dal guadagno politico incerto. I Democratici e la sinistra, dalla testa di Obama e Hillary Clinton, Nancy Pelosi e Chuck Schumer fino all’ala sempre più rilevante ed influente dei dichiarati socialisti Bernie Sanders ed Alexandra Ocasio-Cortez, hanno sempre considerato Trump un presidente illegittimo e usurpatore.
Gli hanno prima scatenato contro (nel 2016-2017-2018) un complotto di regime, basato sul fasullo dossier della spia inglese Chris Steele pagato dal Consiglio Nazionale Democratico, che doveva sfociare in una condanna del procuratore speciale Bob Mueller per “collusione con Putin”. E che si è invece risolto con la sua assoluzione. Poi i dirigenti DEM alla Camera, Nancy Pelosi con Adam Schiff e Jerry Nadler, nel 2019, hanno promosso l’impeachment per la famosa telefonata di Trump al leader ucraino neoeletto, ma sono stati battuti sonoramente in Senato.
Che tornaconto avrebbero, ora, accanendosi contro un presidente che è stato sconfitto alle urne e poi ha fatto harakiri? Per i DEM l’obiettivo dovrebbe essere di indebolire il partito Repubblicano, ed è tutto da vedere se colpendo e demolendo il Trump attuale non rischino di fare il gioco del loro vero avversario strategico, il GOP del 2024. Anche se una base che ha apprezzato le politiche e i successi di Trump dal 2017 al voto dello scorso novembre non si dissolve di sicuro dalla sera alla mattina, il partito Repubblicano ha comunque il bisogno di de-trumpizzarsi. Il GOP, infatti, ha appena ceduto Casa Bianca e Senato e sa di avere davanti una faticosa marcia nel deserto. Liberarsi del leader perdente, ora che è diventato tossico e scomodo davanti a tutte le persone di buona volontà costituzionale, è una strada obbligata.
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