Le baby pensioni furono introdotte ad inizio degli anni ’70 del secolo scorso per una scelta politica ben precisa, ma rappresentano oggi un onere molto pesante per le casse dello Stato.
Il mondo del lavoro e quello previdenziale sono connessi tra loro in modo molto stretto ed è vero che oggigiorno l’esigenza di riformare in modo strutturale il mondo delle pensioni è sempre più sentita dalle istituzioni. Altrettanto vero però che quando nel nostro paese il dibattito va a toccare le ipotesi di nuove regole previdenziali, molto spesso si tirano in ballo anche le cosiddette ’baby pensioni’, ovvero prestazioni pensionistiche particolarmente agevolate che, pur essendo parte di un sistema non più in vigore dal lontano 1992, continuano ad essere pagate a centinaia di migliaia di cittadini italiani.
Il punto è che, tra le varie debolezze di un sistema previdenziale che va sicuramente ripensato, riveduto e corretto per meglio affrontare le sfide del futuro, c’è anche e soprattutto quella costituita proprio dalla presenza delle baby pensioni, le quali rappresentano tuttora una importante voce di spesa per lo Stato italiano.
L’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, alcuni anni fa ebbe modo di dichiarare che le baby pensioni ebbero all’epoca del lancio un impatto sul bilancio dello Stato molto poco consistente - negli anni ’70 l’Italia veniva dagli anni del boom economico - aggiungendo però che oggi questi trattamenti pensionistici ci hanno lasciato in eredità un onere nient’affatto irrilevante. Proprio le prestazioni in oggetto sarebbero infatti alla base di buona parte degli squilibri e del debito pubblico odierno.
Ma dunque che cosa sono le baby pensioni? E perché si chiamano così? E soprattutto quanto costano ogni anno allo Stato italiano? Di seguito lo spiegheremo e indicheremo anche una stima del peso economico che queste prestazioni costituiscono oggi per l’istituto di previdenza. I dettagli.
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Le baby pensioni sono una invenzione che appartiene al periodo storico in cui la DC dominava la scena politica del nostro paese. Esse furono infatti introdotte nel 1973 dal governo Rumor, ed all’epoca rappresentarono peraltro una sorta di ’cavallo di battaglia’ democristiano, lanciato - anche e soprattutto - per contrastare l’ascesa della popolarità del PCI in Italia. Questo in un periodo storico in cui la crescita economica stava rallentando mentre la crisi energetica e il piano di austerity avevano modificato, in parte, le abitudini dei cittadini.
L’espressione fa riferimento a un sistema pensionistico agevolato per i dipendenti pubblici, nato nel 1973 e restato in vigore fino al 1992, che permetteva di andare in pensione dopo 20 o 25 anni di contributi o dopo 14 anni e 6 mesi e un giorno di servizio utile per le donne sposate con figli. Secondo le stime effettuate, più di 420mila persone hanno sfruttato questa maxi agevolazione per anticipare la data del pensionamento.
Dal punto di vista pratico, il sistema delle baby pensioni ha permesso a centinaia di migliaia di dipendenti statali di uscire dal mondo del lavoro ancora in giovane età. Attenzione però: per molti un’uscita solo ’sulla carta’, perché non pochi di questi pensionati baby hanno poi proseguito a lavorare, e non sempre in modo regolare.
Insomma quarant’anni fa si poteva andare in pensione con pochi anni di contributi, tanto che l’età media di chi ha avuto accesso alla pensione nel pubblico impiego era di soli 44 anni.
Motivi dell’introduzione delle baby pensioni e della cancellazione negli anni ’90 con la riforma previdenziale
Come accennato in apertura, le baby pensioni furono frutto di una fase socioeconomica ancora buona per l’Italia, perché negli anni della loro introduzione il Pil nazionale cresceva vari punti ogni anno, mentre il rapporto debito/Pil era intorno al 30%.
Soprattutto era un periodo in cui i lavoratori erano più dei pensionati e non si pensava a quanto sarebbero potute costare al sistema previdenziale italiano sul lungo termine. Inoltre la baby pensioni rappresentavano una scelta politica democristiana, mirata espressamente a conservare ed allargare il consenso degli elettori.
Negli anni ’90 del secolo scorso il boom del debito pubblico e l’invecchiamento progressivo della popolazione italiana indicarono l’insostenibilità del sistema in oggetto negli anni a venire. Ecco perché le istituzioni dell’epoca scelsero di superare questo squilibrio del sistema pensionistico, abolendo le “baby pensioni” e riformando l’intero sistema previdenziale.
Fu la riforma del 1992 (d. lgs. n. 503 del 1992) ad eliminarle del tutto, nonostante in molti continuino ancora oggi a goderne. Le nuove regole all’epoca fissarono un aumento graduale dell’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini, accrescendo altresì gli anni minimi di contribuzione da 15 a 20. Mentre con una ulteriore riforma – la legge Dini del 1996 – fu superato il sistema col quale fino ad allora si calcolava la pensione, vale a dire quello retributivo, perché emerse che anch’esso - come le baby pensioni - era ormai insostenibile per le finanze dello Stato. Come è ben noto, al suo posto fu introdotto il sistema contributivo, che invece si fonda sulla somma dei contributi che i lavoratori hanno pagato in tua la loro carriera.
Stime sui costi delle baby pensioni oggi: il rilievo dell’aumento della durata media della vita
Oggi si stima che le baby pensioni costino alle casse dello Stato non meno di 7 miliardi all’anno perché - lo ribadiamo - se è vero che dette pensioni sono ormai scomparse da decenni, vengono comunque ancora erogate a chi ha acquisito a suo tempo il diritto ad incassarle.
Anzi parlare di queste pensioni, e del loro peso economico attuale sulla previdenza italiana, appare opportuno se pensiamo anche ai costi complessivi di istituti quale Quota 102 (che ha sostituito Quota 100 ma ormai prossimo anch’esso a scomparire a fine anno), Ape sociale o Opzione Donna. Si ragiona di nuove forme di pensionamento anticipato e di come superare la tanto discussa legge Fornero, ma sempre con un occhio all’equilibrio dei conti, per evitare errori del passato come le baby pensioni.
I dati dell’Osservatorio Inps sulle pensioni confermano un trend che non può non tener conto di fattori quali l’età precoce di uscita dal lavoro dei baby pensionati, la loro età attuale e la speranza di vita. In base alle regole delle baby pensioni, che rimangono tuttora attive per chi ha acquisito all’epoca il relativo diritto di incassarle, non è affatto raro che i baby pensionati restino in pensione anche per più di 40 anni. D’altronde nel corso del tempo la durata media della vita è cresciuta, superando gli 80 anni di età, come a voler dire che circa metà della propria vita i baby pensionati la passano incassando questo trattamento previdenziale.
Oggi si parla con una certa insistenza di una nuova riforma previdenziale strutturale, anche a riparare anni di politiche poco lungimiranti, che portano oggi a poter lasciare il lavoro soltanto a 67 anni. Peraltro un’età per la pensione di vecchiaia, che sicuramente crescerà ancora a discapito dei più giovani, laddove invece c’è chi da quarant’anni prende il trattamento pensionistico dall’Inps - avendo lasciato in molti casi il lavoro nel pieno delle proprie energie.
Conclusioni
Dal fenomeno delle baby pensioni possiamo però trarre l’insegnamento per cui per una scelta avventata c’è sempre poi il conto da pagare. In questo caso, l’eccessiva generosità nel permettere l’uscita dal mondo del lavoro - senza considerare con estrema attenzione le conseguenze future - ha avuto ripercussioni oggettive sul sistema previdenziale italiano, costretto a pagare costi non indifferenti a causa di chi è in pensione dagli anni ’80 e da più di quarant’anni. Il debito pubblico ne ha così risentito. Anzi le baby pensioni hanno fortemente inciso come spesa pensionistica sul Pil, contribuendo creare disavanzi che hanno condotto all’adozione della discussa riforma Monti-Fornero.
Ma il pericolo indicato dagli osservatori è che possa nuovamente ripetersi quanto successo con le baby pensioni. Infatti le prestazioni previdenziali non adeguatamente sostenute da contributi dovranno prima o poi essere pagate da qualcuno. Ecco perché è certamente possibile che in futuro si sia obbligati ad allungare ulteriormente l’età pensionabile o a ritoccare gli importi delle pensioni. E ciò per salvaguardare il sistema previdenziale italiano nel suo complesso, ma a discapito delle future generazioni.
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