La regina dell’universo cripto ha sfondato quota 40.000 dollari e il market cap del comparto 1 trilione. Tutto intorno, una ridda di speculazioni e previsioni. Davvero il Sistema si è redento e ora vuole trattare Bitcoin «alla pari»? O mira solo all’ingresso a palazzo, per tramare dall’interno? Una cosa è certa: le Banche centrali hanno fatto di tutto per creare il fenomeno. Ora potrebbero fare di tutto per distruggerlo. E sopravvivere.
La regione del Khanty-Mansiysk con la sua omonima città-capitale si trova nel nord-ovest della Siberia, location piuttosto inusuale per il mondo del business. E inospitale. Eppure, da qualche giorno quella sperduta porzione di mondo sta facendo capolino su atlanti e mappamondo di molti analisti, divenendo una sorta di moderno El Dorado. Nuova corsa all’oro, Klondike in salsa post-sovietica? Sì. Ma cripto.
Perché proprio nel suo stabilimento situato in quella provincia capace di produrre da sola il 40% del petrolio russo, il gigante energetico Gazpromneft, sussidiaria della più nota Gazprom, ha deciso di tramutarsi da rispettato operatore del campo energetico in miner di Bitcoin. Per conto terzi.
Di fatto, noleggia la sua capacità di generare energia dai propri giacimenti petroliferi attraverso i gas liberati dalla trivellazione. I quali, solitamente, vengono dispersi nell’atmosfera, divenendo una liability ambientale per le aziende: qui, invece, sono veicolati per produrre l’elettricità necessaria al mining di Bitcoin, ovvero l’attività che consente di produrre nuove criptovalute, pur nascendo come mero processo di convalida delle transazioni all’interno della blockchain.
Attività fondamentale ma con due enormi criticità: i costi e, appunto, l’enorme quantitativo di elettricità necessario. Ecco quindi l’intuizione: operare di fatto come una crypto mining farm, vendendo un servizio a terzi. E il trend appare destinato a fare proseliti, se Rosatom, il monopolista nucleare russo, ha annunciato la propria intenzione di seguirne l’esempio e mettersi in scia ai competitor americani come Upstream Data e Crusoe Energy Systems, i quali utilizzano per il mining i gas generati dalle operazioni di fracking per lo shale oil in stabilimenti di Usa e Canada.
Centre for Alternative Finance
E il business appare di quelli destinati a generare profitti enormi, visto che come mostra questo grafico, stando a calcoli del Centre for Alternative Finance della Cambridge Univerisity, la cavalcata selvaggia del prezzo di Bitcoin registrata nella settimana di fine anno ha comportato un dispendio di energia di poco superiore al consumo del Pakistan, una nazione con 200 milioni di persone: 92.8 terawatt/ora su base annua. Insomma, una strategia win-win.
I colossi energetici offrono un servizio che genera profitti e utilizzano in maniera sostenibile il Co2 generato dalla produzione e chi può permetterselo, ottiene facilmente l’energia necessaria alla creazione di criptovaluta. La quale, ormai, è ampiamente andata oltre al concetto di moneta alternativa. E non solo perché il 7 gennaio ha visto Bitcoin superare per la prima volta quota 40.000 dollari e l’intero comparto cripto la capitalizzazione di mercato di 1 trilione di dollari.
No, paradossalmente Bitcoin sta diventando pericolosa per un semplice fatto: la other rotation, come viene definita in gergo. Ovvero, l’accelerazione dei flussi dall’oro verso le criptovalute, come mostra questo grafico.
Bloomberg/Zerohedge
JP Morgan nel suo ultimo report ha definito questa trasmigrazione fra beni rifugio ormai strutturale, ancorché ponendo una sorta di bastione invalicabile di fronte alla marcia trionfale della regina del mondo cripto:
«Non possiamo escludere la possibilità che l’attuale mania speculativa possa propagarsi ulteriormente e spingere il prezzo di Bitcoin addirittura dentro una consensus region fra i 50.000 e i 100.000 dollari. Ma, altresì, pensiamo che raggiunta quella valutazione, il livello diverrà insostenibile».
Veramente? E perché allora soggetti come Gazpromnet stanno investendo soldi, tempo e ricerca nel business del - chiamiamolo così - leasing energetico? Siamo già a quota 40.000 dollari, quindi se il ragionamento di JP Morgan sulla speculative frenzy fosse vero, il margine di insostenibilità sistemica sarebbe questione di settimane: giova infatti ricordare che Bitcoin ci ha messo un decennio a raggiungere i 20.000 dollari. Ma solo due settimane per poi passare a 30.000. E meno di una - calcolando le festività - per raggiungere 40.000. Davvero vita così breve, poi potenziale esplosione della bolla, come nel 2017?
Difficile crederlo. Non fosse altro per l’aumento esponenziale e continuo dei soggetti istituzionali che hanno deciso di diversificare e investire in Bitcoin. A meno che il loro intento sia quello di mostrare appeseament, quasi una resa di fronte alla nuova regina, per poi tramare dall’interno del palazzo. Ovvero, sabotare quello che sta diventando un pericolo strutturale per il sistema. A porre un accento decisamente politico sulla questione ci ha pensato infatti Rabobank, quando nel suo report sul tema scrive:
«Se qualcuno crede che Bitcoin sia sul punto di continuare a crescere, allora questo qualcuno deve anche dirsi certo che l’intero sistema fiat, inclusa l’egemonia geopolitica statunitense, stia per collassare definitivamente».
Insomma, come dire: non si può essere diventati di colpo tutti seguaci della scuola austriaca, accettando però solo alcuni modelli ma rifiutando il pacchetto scientifico e intellettuale nella sua interezza. E, di fatto, lasciando intendere che qualcosa potrebbe entrare in campo, a gamba tesa e piede alzato, per fermare ciò che giorno dopo giorno appare sempre più una minaccia reale e sempre meno una bizzarra ma inoffensiva (per lo status quo) alternativa iconoclasta alla moneta.
D’altronde, cosa fece la Fed con l’oro negli anni Trenta? E un dato su tutti deve far riflettere in tal senso: nel 2020 la Us Mint ha venduto monete d’oro American Eagle per 884.000 once, quattro volte le 152.000 del 2019. Il mese di maggior acquisto? Marzo con le sue 151.500 once. Ovvero, i giorni della correzione dei corsi equity e del grande spavento. Prima del rassicurante e salvifico, quasi taumaturgico, ritorno in campo del bomber che risolve le partite: la Federal Reserve.
Ed ecco il punto dirimente, ciò che sta già oggi facendo paura al Sistema rispetto alla crescita non tanto del valore quanto della diffusione, della fiducia e del profilo di Bitcoin come bene rifugio istituzionalmente riconosciuto. Bill Miller, iconico numero uno della Miller Value Partners, non ha dubbi:
«Se l’inflazione dovesse salire e molte aziende dovessero decidere di diversificare anche una piccola porzione dei loro cash balances in Bitcoin, a quel punto il flusso di capitale che si genererebbe sarebbe a dir poco torrenziale».
Addio quindi alle previsioni di ceiling della sostenibilità di JP Morgan. E, invece, ulteriore conferma del dato tutto politico di lettura della situazione sposato da Rabobank. Come confermato da questi due grafici, il primo dei quali mostra come le prospettive inflazionistiche a 5 anni stiano continuando a crescere, sia negli Usa che in Europa.
Bloomberg
JP Morgan
E attenzione: parliamo di tracciature ufficiali, le quali ad esempio non tengono conto del più grande fattore di compressione dei prezzi mai visto: l’incorporazione delle loro dinamiche di crescita reale nella sovra-valutazione del mercato azionario, non fosse altro per l’ormai preponderante componente retail che lo anima e lo finanzia.
Il secondo grafico parla ancora più chiaro, quasi fosse scritto in stampatello: ad oggi, Bitcoin rischia di essere il proxy più affidabile dell’inflazione reale. Quella che fino a ieri era prezzata dalle quotazioni dell’oro e dalla sua percezione quotidiana come bene rifugio: perché una cosa sono i futures delle bullion banks, una cosa il prezzo (manipolabile) del fixing e un’altra quello delle monete che la gente compra, quando sale la paura per il futuro e si tesaurizzano le aspettative di crisi. E il dato sulle American Eagle parla chiaro.
Così come i flussi strutturali di diversificazione, la other rotation, proprio dall’oro verso Bitcoin. Sempre crescenti. Sarà per questo che il Sistema, quello che Rabobank ritiene ormai obbligato a reagire per mero istinto di sopravvivenza, pare flirtare con le criptovalute, accettarne l’ingresso in società come si fa, controvoglia, con i parvenu che comprano l’accesso ai club privati a colpi di contanti, pur non avendo una sola goccia di sangue blu? Per cospirare poi da dentro il Palazzo?
Una cosa è certa, la volatilità implicita di Bitcoin ultimamente sta aumentando, caratterizzata da scostamenti intraday sempre più brutali dovuti a un sempre maggior flusso di ingresso e soprattutto numero di players. Sempre più grandi, capaci di creare i clusters. E di generare talmente tante oscillazioni di prezzo da «convincere» i media a veicolare il messaggio: Bitcoin è rischiosa, Bitcoin non è affidabile, Bitcoin e le criptovalute non sono un’alternativa credibile al sistema fiat. E’ solo speculazione.
Poi, se servirà, ci penseranno gli aborti in serie delle valute digitali già annunciate dalle varie Banche centrali a provare nella missione finale di seppellire Bitcoin. Perché alla base di tutto, ci sono questa immagine e il grafico a corredo:
CBS News
Zerohedge/Bloomberg
l’intervista a 60 Minutes della CBS News di Jerome Powell del 17 maggio scorso e quella frase, relativa al processo di creazione della moneta da parte della Banca centrale appena rientrata in regime emergenziale di Qe:
«We print it digitally. So we – you know, we – as a central bank, we have the ability to create money digitally and we do that by buying Treasury Bills or bonds or other government guaranteed securities».
Da quel momento, Bitcoin non ha conosciuto solo continui aumenti delle valutazioni ma, soprattutto, un sempre maggiore appeal verso soggetti istituzionali. E, soprattutto, retail. Il capo della Fed con la sua ammissione ha, di fatto, dato vita alla other rotation, ha implicitamente «screditato» l’istituzione che guida a favore di Bitcoin e soci.
Nel frattempo, si è continuato a stampare in ambiente espansivo strutturale, finanziando i deficit sovrani e generando inflazione cattiva che si riversa e stagna nelle equities molto prima di esondare nel carrello della spesa. Il grande inganno. Bitcoin, prima di tutto, rischia quindi di essere la cartina di tornasole del gioco delle tre carte in atto ormai dal 2011, il bimbo che grida il Re è nudo. Per questo, temo, finirà sotto attacco.
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