Chi fa greenwashing non ha futuro: la sostenibilità nei processi di business secondo Sap

Dario Colombo

12/03/2022

O le aziende saranno davvero sostenibili oppure spariranno. Ci serve una politica industriale e dobbiamo capire chi paga per la transizione ecologica

Chi fa greenwashing non ha futuro: la sostenibilità nei processi di business secondo Sap

Si è chiuso oggi a Villa D’Este di Cernobbio il quindicesimo Sap Executive Summit, una due giorni che ha avuto come leitmotiv l’innovazione sostenibile. Evidenziata dall’indovinato titolo: “Zero e lode, rise to a sustainable innovation” (Zero come impatto ecologico) il summit ha voluto tracciare, riuscendoci, una linea che gli ottimisti possono, lontani dal cadere in errore, intendere come una visione strategica, e gli apocalittici possono vedere come quel percorso illuminato che conduce a uscire da un luogo sottoposto a pericolo.

Scegliendo di stare virtuosamente in campo neutro vi diamo conto di una visione non del tutto nuova, certo, ma che ribadita in questo momento in cui il presidente del Consiglio Mario Draghi invita a non trascurare che ci si possa confrontare con un’economia di guerra, ha un valore rafforzato.
Zero waste, zero emission zero inequality, ossia azzerare sprechi, emissioni e disuguaglianze è il mantra di Sap già da qualche tempo, alla stregua di un tweet fissato.
Ma vediamo qual è stato il punto di partenza, per capire come Sap arriva a parlare di sostenibilità in questo modo intellegibile ai più e soprattutto come la si mette in pratica.

Dagli standard alla sostenibilità in 50 anni

Nata nel 1972 (esattamente cinquant’anni fa) nell’allora Germania Ovest a Wieinheim (Baden-Württemberg) e quasi subito trasferitasi nella vicina Walldorf, attuale quartier generale, retta per anni dai founder, quei Dietmar Hopp e Hasso Plattner che sono stati icone viventi della forza della standardizzazione dei processi di business, Sap per anni ha rappresentato la certezza di diritto del business: se non era nel software Erp (Enterprise Resource Planning, meglio conosciuto come gestionale) si poteva dubitare che una fattura esistesse, per dire la centralità che aveva raggiunto il sistema gestionale creato dai tecnici della società tedesca.
Poi è arrivata l’internazionalizzazione, l’apertura a occidente (l’America), con il Crm e il cloud computing. Risultato, Sap è lungi dal tradire la sua matrice parametrica, tipicamente tedesca, ma il percepito attuale è quello di un’azienda che ramifica la sua forza nel globalismo tecnologico.
Come ha ricordato Emmanuel Raptopoulos, presidente Semea (South Europe Middle East e Africa) di Sap, «in questi 50 anni abbiamo vissuto molte trasformazioni: la crisi petrolifera, la bolla delle dotcom, la transizione su cloud, la pandemia, La costante è che abbiamo creato un circolo virtuoso tra aziende, bisogni e proposta tecnologica».
Lo si capisce venendo ai giorni nostri: nel 2019 durante l’ultimo executive summit di Sap tenutosi prima della pandemia a Cernobbio (abituale luogo di consessi di alto livello a cui partecipano ministri e think thanker) si parlava di intelligenza artificiale.

Quanto la pandemia ha accelerato l’innovazione tecnologica?

Adesso, dopo due anni di pandemia si parla di sostenibilità, e non solo ambientale, ma anche economica, sociale e quindi di business (spoiler: è per fare questa crasi che serve l’innovazione tecnologica).
Carla Masperi, country manager, è arrivata al vertice di Sap in Italia dopo esserne stata Chief operating officer (carica che mantiene) e fino al 2013 era Chief information officer del San Raffaele di Milano.
Masperi ha spiegato ai manager di grandi aziende italiane e ai partner di Sap (Accenture, Aws, Bgp, Capgemini, Deloitte, Engineering, Ibm, Minsait, Pwc, Qintesi, Reply Syskoplan, Techedge, EY, InnovatesApp, Mirakl), oltre che alla stampa, che prendere come voto “Zero e lode significa integrare la sostenibilità nei processi di business, passare da un’economia lineare all’economia circolare, ripensando le catene di costruzione del valore, progettando i prodotti con l’ottica dapprima di minimizzare e poi azzerare gli scarti”. E a livello globale Sap parla di Zero waste zero emission zero inequality.

Carla Masperi Sap Italia Carla Masperi Sap Italia

Per arrivarci bisogna capire che ciò che fanno normalmente le aziende, ossia produrre e fare profitti, non basta più. Serve aggiungere una terza dimensione: devono essere anche sostenibilli. In linguaggio tecnico, vanno coniugate bottom line, top line e green line.

Fact checking batte greenwashing

Un’azienda è di successo - ha spiegato Carla Masperi - se coniuga crescita, profittabilità e sostenibilità: chi non tiene in conto la green line non ha futuro. La sostenibilità portandola in concreto nei processi di business. Insomma, chi fa greenwashing non ha futuro, perché la sostenibilità va misurata. Bisogna dimostrare al mercato che non è solo una strategia di facciata, ma che la si integra nei processi aziendali”.

Un’azienda può fare questo da sola? Certo che no: “deve capire se la rete di fornitori è sulla stessa lunghezza d’onda, perché la sostenibilità è un gioco di squadra”.
Di certo è che sul fronte green c’è molta strada da fare.
Secondo il World Economic Forum solamente il 9% delle aziende comincia ad adottare soluzioni software per la green line. E da ricerche Sap emerge che il 79% delle aziende è insoddisfatto di come raccoglie dati per raggiungere lo scopo della sostenibilità.
Servono strumenti concreti e politiche di indirizzo. Uno strumento è il Sap Sustainability control tower, che Giacomo Coppi, a capo delle soluzioni per la supply chain e manufacturing di Sap, ha spiegato che serve «ad aggiungere informazioni che consentono di influire sui processi in ottica di sostenibilità. Non come informazione a consuntivo, ma in parallelo, con insight che hanno la stessa efficienza delle operazioni in tempo reale».

Sap Sustainability Control Tower Sap Sustainability Control Tower

La sostenibilità è una questione politica

Quanto alle politiche, devono essere sostenute dalla convinzione che etica e profittabilità non sono in contraddizione.
Come ha spiegato Maria Letizia Giorgetti, docente associato Economia Applicata presso l’Università di Milano, membro del team di esperti di politica industriale del Mise, “le transizioni digitale ed ecologica, non sono automatiche, ma vanno accompagnate.
Dobbiamo avere un sano pragmatismo, ridando ruolo della politica industriale, che negli ultimi anni è stata messa da parte, per dare spazio al mercato, Noi avevamo un ministero delle partecipazioni statali che veniva studiato dai paesi esteri. Poi è stato criticato per via dell’asimmetria informativa
”, che a chi stava in alto impediva di capire cosa accadeva in basso.

Maria Letizia Giorgetti Maria Letizia Giorgetti

Quando nelle aziende c’è un intervento statale entrano obiettivi politici, che non sono quelli dell’efficienza. «Le tre crisi recenti, del 2008, 2012 e 2020 ci hanno messo di fronte alla necessità di intervenire con una politica industriale. Che significa mettere insieme politiche di innovazione, ambientale e di formazione»: è la teoria di Philippe Aghion (economista francese che è stato anche consulente di Barak Obama), per il quale fare politica industriale non significa fare scelte anticompetitive, ma pragmatiche.
Il PNRR mette la digitalizzazione nella prima missione e nella seconda missione si parla di sostenibilità, dicendo qualunque intervento non deve recare danno ambientale.
Ma studi citati dalla professoressa Giorgetti dicono che non sempre digitale e sostenibilità. ambientale sono forze sinergiche e si accompagnano.
La politica industriale, per la professoressa Giorgetti «è sempre più politica della formazione Il capitale umano è l’asset strategico su cui tutti dobbiamo investire. E la sostenibilità ambientale è anche sociale, ci sono dei costi».

Chi paga per la sostenibilità?

E proprio sul tema dei costi echeggia ancora nelle sale di VIlla D’Este la domanda che ha posto più volte l’analista politico Dario Fabbri: chi paga la transizione ecologica?
Se utilizziamo bene il PNRR - ha detto Fabbri - e se ci arrivassero tutte le tranche, è una grande occasione. Ma i soldi non arrivano da Marte, sono un debito, e questo a spiegato in modo genuino. Ciò che è importante va anche pagato”.
La transizione ecologica, per Fabbri, “è una grande narrazione, quasi scontata nella sua necessità: la dimensione apocalittica, il millenarismo non c’entra. Con la transizione ecologica saremmo più liberi e staremmo meglio".
I dati citati da Fabbri dicono che gli USA si presentano come alfieri del green, ma l’energia da loro generata alternativamente è il 20%, mentre in Cina il 26%.
La clava della transizione ecologica, secondo Fabbri, è stata usata per colpire le economie altrui: per frenare la produzione si impongono lacci sul piano ecologico. “I cittadini americani hanno paura di dover pagare per la transizione ecologica e il presidente Biden lo sa. Gli eventi che stanno accadendo in questi giorni ci ricordano che gli stati fanno ciò che possono con i sistemi che hanno. La sostenibilità della transizione ecologica è legata al suo costo. Se le nazioni non si mettono a un tavolo e stabiliscono chi paga, rimarrà un sogno”.

Dario Fabbri Dario Fabbri

Money.it ha rivolto la domanda a Carla Masperi per capire quanto possono fare le aziende tecnologiche come Sap per dare gli strumenti che consentano di capire i costi della transizione. “Digitale e sostenibilità non divergono - ha risposto Masperi -. Ma solo se ripensiamo i processi di business e non mettiamo in digitale ciò che è analogico. C’è bisogno di una politica industriale abbinata a una volontà aziendale. Chi non investe in sostenibilità non ha futuro. Il tema della cultura è centrale. Sostenibilità non è solo avere un prodotto fatto con i sacri crismi, ma avere processi".

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