Sono l’ultima parte dell’ingranaggio della tratta degli esseri umani spesso messi lì sotto minaccia. Inasprire la pena ai loro danni potrebbe non essere la soluzione ideale. Ecco perché.
Negli ultimi anni il tema dell’immigrazione è diventato uno dei più scottanti che un Governo deve affrontare. La recente tragedia di Cutro dove hanno perso la vita oltre 70 persone tra uomini, donne e bambini a causa del naufragio della barca dove viaggiavano, ha riacceso i riflettori sulla strategia criminale che si cela dietro questi viaggi della speranza.
Fin dai momenti successivi alla tragedia gli investigatori italiani si sono messi alla ricerca dei cosiddetti scafisti, cioè di chi guidava e gestiva il viaggio di decine e decine di persone principalmente di nazionalità iraniana, somala, palestinese e afgana. Grazie anche alla testimonianza dei sopravvissuti sono stati individuati un turco, un siriano mentre un altro turco di circa 30 anni è stato riconosciuto tra le vittime. Un quarto scafista che risultava ricercato perché fuggito è stato arrestato nelle scorse ore in Austria. Tutti giovanissimi, tutti che si professano innocenti ma che sono stati segnalati come possibili scafisti perché guidavano il caicco e avrebbero aiutato nella gestione dei migranti a terra, prima dell’imbarco, e poi a bordo.
Chi si cela dietro gli scafisti
Ma gli scafisti sono solo l’ultima parte di un sistema ben più organizzato con sede in Turchia. Si dovrà partire da loro per cercare di ricostruire l’intera organizzazione che ha gestito la traversata poi culminata in tragedia.
Da quello che si sa la base è in Turchia con ramificazioni in Afghanistan e Pakistan. Pretendono una parte del pagamento prima della partenza ed una parte a traversata compiuta. Cifre elevate, chi parla di 4mila euro, chi di 7mila. Incassano, gestiscono le cosiddette «safehouse» dove i migranti vengono parcheggiati in attesa dell’organizzazione del viaggio, scelgono gli scafisti e l’imbarcazione adatta per la traversata.
Non si sa molto altro perché si tratta di organizzazioni ben nascoste. Nemmeno seguire la scia dei soldi funziona. Spesso i pagamenti delle tratte avvengono lungo agenzie della hawala, sistema di rimesse assai diffuso in Asia e Medio Oriente estranee ai controlli del sistema bancario. Chi fa il lavoro sporco sono gli scafisti. Funziona quasi sempre così: sono uomini reclutati e messi alla guida della traversata o sotto minaccia di armi o con la violenza o c’è chi lo fa perché non ha i soldi per pagarsi il viaggio.
«Sulle barche non troverete trafficanti, loro stanno nelle loro belle ville a Istambul a dare ordini» - ha detto a Repubblica Antisham Khalid, fratello di uno dei due ragazzi pakistani arrestati con l’accusa di aver lavorato come mozzi sul caicco.
Le sanzioni ai loro danni non risolvono il problema
Per questo trattandosi a volte dell’ultima ruota del carro inasprire le pene per loro non porta a grandissimi risultati. In Italia si sta tentando di mettere fine ai flussi migratori seguendo la stessa tecnica usata per la criminalità organizzata, ovvero arrestare gli scafisti per poi risalire lungo l’asse dell’organizzazione per cercare di arrivare ai veri criminali che gestiscono la tratta. Ma questa strategia non sembra funzionare. Nel corso degli anni sono stati condannati decine e decine di scafisti ma spesso sono persone messe in quel ruolo solo per uno stato di necessità.
Inoltre inasprire le pene per cercare di combattere il fenomeno grazie al diritto penale ha dato prova di non risolvere il problema. A smentire il tutto infatti sono i numeri degli sbarchi che nonostante i migliaia di scafisti arrestati in tutti questi anni non si sono mai arrestati.
Il governo Meloni dopo l’ennesima tragedia del mare come quella di Cutro ha però deciso di adottare lo stesso la linea dura approvando le nuove norme contro la tratta nel decreto migranti. La norma principale riguarda i reati legati alla tratta delle persone e prevede un aumento delle pene per il traffico dei migranti fino a 30 anni per chi provoca la morte o lesioni gravi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA