La posizione dell’Iran in Medio Oriente è ora una delle più complesse, aggravata dalla morte del leader Nasrallah. Cerchiamo di orientarci insieme.
L’Iran si trova a un bivio cruciale in Medio Oriente, diviso tra il desiderio di vendetta e la necessità di evitare un conflitto che potrebbe travolgere il paese. Dopo l’uccisione di Hassan Nasrallah, storico leader di Hezbollah e figura centrale nella strategia iraniana, a Teheran si è aperto uno scontro tra le diverse fazioni del regime.
Per spiegare la questione molto brevemente: da una parte ci sono gli intransigenti, convinti della necessità di una risposta militare contro Israele, dall’altra i moderati, che temono le conseguenze devastanti di una guerra. Ma cerchiamo di addentrarci più nel dettaglio.
Immediate e forti le reazioni a Teheran
La notizia della morte di Nasrallah ha profondamente scosso la leadership iraniana. Il leader supremo Ali Khamenei ha immediatamente convocato il Consiglio supremo per la sicurezza nella sua residenza. Per Khamenei, Nasrallah era molto più di un semplice alleato: lo considerava quasi un figlio. Questo legame personale rende ancora più delicata la decisione su come rispondere all’attacco israeliano senza compromettere la già fragile stabilità interna dell’Iran.
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La frattura tra le fazioni, che già esisteva, si è fatta più acuta: mentre gli ultraconservatori, guidati da Saeed Jalili, premono per una risposta immediata e dura contro Israele, i moderati, con a capo il presidente Masoud Pezeshkian, cercano di evitare un conflitto diretto che potrebbe avere conseguenze devastanti su un Paese già duramente colpito dalle sanzioni economiche.
Secondo il New York Times, in quei momenti di crisi la tensione era palpabile: i falchi del regime vedevano l’attacco israeliano come un affronto da vendicare con forza per salvaguardare l’orgoglio nazionale, mentre Pezeshkian e la sua fazione erano più cauti, temendo che una guerra aperta potesse destabilizzare ulteriormente l’Iran.
Che ruolo ha un divario generazionale in questo delicato contesto geopolitico?
Le divisioni interne al regime iraniano, in particolare tra le generazioni dei Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione), evidenziano una crescente crisi identitaria. Questi militari d’élite, creati nel 1979 per proteggere il regime islamico, si trovano ora al centro di un conflitto generazionale: i giovani membri accusano i veterani di corruzione e di non essere sufficientemente fedeli agli ideali della Rivoluzione Islamica. Questo contrasto si traduce in una spinta per un approccio più aggressivo, specialmente dopo l’uccisione del leader di Hezbollah, in quanto Nasrallah era considerato un alleato strategico dell’Iran nonché simbolo della resistenza contro Israele (che ricordiamo essere il principale nemico regionale). Dall’altra parte, i veterani tendono a sostenere una linea diplomatica, preoccupati delle conseguenze devastanti di un conflitto aperto.
In questo contesto, il presidente moderato Masoud Pezeshkian cerca di aprire al dialogo internazionale, ma si trova sotto pressione sia dai giovani ultraconservatori che dalla necessità di proteggere gli alleati dell’Iran nella regione e affrontare le sanzioni economiche. Questo dibattito su come affrontare Israele e le relazioni internazionali diventa un punto di scontro, riflettendo il malessere più profondo della società iraniana, dove le nuove generazioni chiedono cambiamenti radicali e soluzioni per una crisi più ampia, economica e sociale, in corso.
Un precario equilibrio tra intransigenti e moderati
Se le divisioni all’interno del regime iraniano non sono nuove, la morte di Nasrallah ha intensificato il confronto tra le due anime del regime. Come spiegato dall’esperto di Medio Oriente Saeid Golkar, lo scontro non è solo tra moderati e intransigenti, ma anche tra le diverse generazioni all’interno dei Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione). Come già specificato, i giovani sono spesso accusatori nei confronti dei più anziani di corruzione. Per questo proprio loro spingono per un approccio più aggressivo, mentre i veterani si mostrano più pragmatici.
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Dopo il tragico genocidio nella Striscia, l’espansione dell’influenza israeliana nella regione si è manifestata attraverso una serie di attacchi mirati, non solo in Libano, ma anche contro gruppi militanti in Siria e Yemen, culminando con l’eliminazione di figure di spicco come i leader di Hezbollah. Questa escalation segna un cambiamento significativo nella strategia di difesa di Israele, che acuisce le tensioni nel (già teso) panorama geopolitico del Medio Oriente.
Pezeshkian, nonostante la pressione, ha ribadito la necessità di sostenere il Libano e gli alleati dell’Iran nella regione, per evitare che Israele continui ad attaccare impunemente i Paesi dell’Asse della Resistenza. Tuttavia, i moderati, pur riconoscendo l’importanza di preservare l’influenza iraniana in Medio Oriente, temono che una risposta militare frontale possa far precipitare il Paese in una crisi irreversibile.
Una posizione ambigua, incarnata dal leader Khamenei (in difficoltà)
Ali Khamenei si trova ora di fronte a una delle decisioni più difficili del suo lungo periodo al potere. L’Iran ha sempre evitato il conflitto diretto con Israele, preferendo una strategia di “proxy wars” attraverso alleati come Hezbollah e Hamas per indebolire lo Stato ebraico (ovvero un conflitto in cui due potenze o stati si affrontano indirettamente supportando gruppi o stati terzi, permettendo loro di combattere per i loro interessi strategici senza impegnarsi direttamente in guerra).
Tuttavia, l’assassinio di Nasrallah ha messo in luce la vulnerabilità della Repubblica Islamica e questo potrebbe necessitare una risposta più forte. Secondo Paul Salem del Middle East Institute, Khamenei potrebbe optare per una risposta comunque limitata, come il lancio di missili o un attentato mirato, per evitare di trascinare l’Iran in una guerra totale. Non è escluso nemmeno che la morte di Nasrallah e l’indebolimento di Hamas potrebbero spingere l’Iran a cercare nuovi strumenti di deterrenza, compresa l’opzione nucleare.
Muoversi nel sempre più turbolento contesto regionale
Turando le somme, l’Iran si trova ora a dover affrontare la sfida di mantenere la propria influenza in Medio Oriente in un contesto sempre più complicato. Le recenti aperture diplomatiche verso l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo Persico, insieme al dialogo con l’Occidente, potrebbero indicare che Teheran sta cercando di allentare la pressione internazionale. Tuttavia, il destino dell’accordo sul nucleare resta incerto, e Khamenei sa che il rilancio dell’economia iraniana dipende in gran parte dalla rimozione delle sanzioni.
Nel frattempo, Khamenei ha scelto di mantenere un profilo basso, rifugiandosi in un luogo sicuro, probabilmente a Mashhad. Questa scelta riflette la strategia prudente del leader supremo, che cerca di evitare un conflitto frontale pur mantenendo una linea di resistenza contro le pressioni estera. Considerato il momento difficile in cui si trova, è una scelta più che comprensibile.
L’iran in bilico
L’Iran si trova a un punto cruciale, in bilico tra una risposta militare all’uccisione di Nasrallah e la necessità di evitare un conflitto diretto con Israele. Khamenei, scosso dall’assassinio del leader di Hezbollah, deve bilanciare la pressione degli intransigenti, che chiedono vendetta, con i timori dei moderati, che temono le conseguenze di una guerra aperta. La sua posizione riflette prudenza, ma non è priva di ambiguità (anche se, probabilmente, è solo un calcolo strategico per preservare il regime).
Le divisioni interne, soprattutto tra le generazioni dei Pasdaran, mettono in luce una crescente crisi identitaria: i giovani chiedono un approccio più aggressivo, mentre i veterani preferiscono la diplomazia. Pezeshkian, leader moderato, cerca di aprire al dialogo internazionale, ma resta sotto pressione per proteggere gli alleati dell’Iran nella regione e cercare una soluzione alle sanzioni economiche.
In questo contesto, ogni mossa sarà determinante. L’Iran deve decidere se perseguire la via della diplomazia o adottare una strategia più aggressiva, che potrebbe isolare ulteriormente il Paese. Il futuro della Repubblica Islamica dipenderà dalla capacità di Khamenei di navigare tra le pressioni interne e le sfide geopolitiche, evitando il disastro di una guerra totale, ma salvaguardando la sua influenza in Medio Oriente.
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