I figli che convivono con i genitori devono pagare l’affitto? Ecco quando, in che misura e modalità i figli conviventi devono contribuire alle spese di casa secondo la legge.
Il canone d’affitto è una delle spese più incombenti per le famiglie, nonché necessaria a provvedere a un bisogno primario, ovvero l’abitazione. I genitori sono tenuti a garantire un’abitazione ai loro figli e dunque anche a pagare l’affitto, almeno finché questi hanno diritto al mantenimento. Non sempre, però, i figli vanno via di casa appena possono.
Non è affatto raro che i figli continuino a vivere con i genitori anche da adulti, beneficiando dell’aiuto della famiglia sia in termini economici che non patrimoniali. È però chiaro che i figli non possono gravare sui genitori senza alcun limite, certamente possono continuare a vivere insieme ma devono fare la loro parte nell’economia e nell’organizzazione domestica.
Non sempre la regola viene seguita e a un certo punto i genitori chiedono un contributo al pagamento dell’affitto, a volte più simbolico che utile, talvolta una consistente quota del canone mensile. Sono parecchi i figli che protestano, obbiettando che c’è un legame familiare e affettivo e che hanno bisogno di risparmiare per raggiungere l’indipendenza. Ecco cosa stabilisce la legge.
I figli conviventi con i genitori devono pagare l’affitto?
Tutti i componenti della famiglia sono tenuti a provvedere ai bisogni comuni, tenendo conto delle proprie possibilità. I figli non sono certo esentati da questo dovere, tanto che l’articolo 315 bis del Codice civile stabilisce espressamente che:
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
Bisogna quindi fare un’importante distinzione tra i figli aventi diritto al mantenimento e quelli che sono ormai economicamente autosufficienti (o hanno la capacità di esserlo). Nel primo caso, l’aiuto in casa non può che concretizzarsi in contributi diversi da quello economico: l’assistenza a malati, anziani e minori, la collaborazione domestica e anche in attività lavorative per i genitori, il tutto compatibilmente con l’età e le capacità dei figli stessi.
Ad esempio, un figlio che ha diritto al mantenimento ma è patentato può occuparsi di portare i fratelli e le sorelle a scuola e agli sport o, più in là con l’età, i genitori alle visite mediche. Anche fare le faccende domestiche o occuparsi dei bambini sono modi per collaborare. I figli che hanno redditi ma hanno ancora diritto al mantenimento, poi, sono chiamati a un aiuto anche economico, ma in misura molto limitata, proprio in ragione della minima disponibilità di risorse.
Tutto cambia quando i figli perdono il diritto al mantenimento, perché questo vuol dire che hanno una capacità economica o la possibilità di ottenerla. Il contributo, in questo caso, deve essere anche patrimoniale e può concretizzarsi anche nel pagamento dell’affitto. La legge non specifica nulla in merito, poiché tutto si basa sull’accordo trovato in base alle esigenze familiari.
Per esempio, ai figli potrebbe essere chiesto di dare una percentuale del canone ottenuta dividendo l’ammontare per il numero di familiari con reddito, ma anche una porzione più piccola o più grande a seconda dei casi. Ad esempio, se il figlio ha un reddito esiguo o si occupa anche di altro per contribuire ai bisogni della famiglia dovrà pagare una minima parte dell’affitto.
Al contrario, i figli che hanno la disponibilità e non contribuiscono diversamente possono pagare una quota maggiore sul canone, bilanciando così il mancato apporto nelle altre spese. Non c’è una regola ferrea perché la legge non impone ai figli conviventi di pagare l’affitto ma solo di contribuire alle spese di casa, nei vari modi possibili e congeniali a tutti i familiari.
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Cosa fare se i figli non vogliono pagare l’affitto
La legge obbliga i figli a contribuire alle necessità della famiglia; perciò, i genitori possono agire in giudizio per tutelarsi in caso di rifiuto. Questo è possibile anche quando i figli, pur avendone le capacità, si rifiutano di pagare parte dell’affitto.
Si ricorda, tuttavia, che i genitori non sono tenuti a tenere in casa i figli che non hanno diritto al mantenimento; perciò, la causa civile può essere efficace per ottenerne l’allontanamento dall’abitazione o dal raggiungimento di un accordo tra figli e genitori – ad esempio con una somma periodica – approvato dal giudice, ma non per obbligarli a corrispondere una precisa somma di denaro.
La solidarietà familiare è infatti un’obbligazione naturale, che non può essere pretesa e quantificata direttamente, oltre a essere personale. Diverso è il caso in cui i figli sono tenuti a pagare gli alimenti ai genitori in stato di bisogno, ipotesi in cui il giudice determina un vero e proprio assegno periodico tenendo conto delle disponibilità degli obbligati.
Figli che convivevano con i genitori ed eredità, cosa succede
Appurato che i figli hanno anche doveri economici rispetto alle necessità dei genitori, si pone un problema non indifferente alla morte di questi ultimi. Si potrebbe pensare che i figli che non hanno contribuito abbiano diritto a una porzione limitata dell’eredità, avendo già usufruito dei soldi dei genitori quando erano in vita.
Non è proprio così. Ciò avverrebbe soltanto in presenza di donazioni oppure in obbligazioni definite da sentenza del giudice o di assegno alimentare. Anche se potrebbe sembrare ingiusto a qualcuno, tutti i figli hanno diritto alla medesima quota di eredità, salvo che sia ridotta da donazioni ricevute in vita o che siano stati dichiarati indegni a succedere.
Quando i figli, conviventi o meno, lasciano i genitori in stato di indigenza sono condannabili per il reato di violazione degli obblighi familiari, ma anche un’eventuale condanna in questo senso non influisce sull’eredità.
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