Cosa c’è nel piano di Gentiloni per le tasse europee

Alessandro Gregori

19/05/2021

La nuova agenda del commissario europeo per un’imposizione tributaria «a prova di futuro». Con l’intenzione di finanziare i programmi come Next Generation Eu grazie al recupero dell’evasione fiscale. E l’obiettivo di ottenere l’appoggio degli Stati Uniti. La congiuntura è favorevole. La politica chissà

Cosa c’è nel piano di Gentiloni per le tasse europee

Un piano per ridurre le frodi, l’evasione e l’elusione fiscale. E far pagare le tasse dove si realizzano i profitti da parte delle grandi imprese. Non nelle loro sedi legali. Infine, una tassazione minima uguale per tutto il Vecchio Continente per evitare il dumping fiscale. La nuova agenda del commissario europeo Paolo Gentiloni per un’imposizione tributaria «a prova di futuro» è vasta e ambiziosa.

Così come sono enormi le cifre da recuperare: 50 miliardi per l’elusione e 49 per l’evasione. E se il suo slogan per questo Vaste Programme è «It’s now or never» ci sarà un perché.

Il piano di Gentiloni per le tasse europee

Il riferimento dell’«adesso o mai più» è alla congiuntura economica (e politica) favorevole: l’Europa alle prese con la ricostruzione dopo le macerie che ha lasciato la pandemia di Covid-19, gli Stati Uniti che ospitano alla Casa Bianca Joe Biden, ovvero un inquilino molto più malleabile sulla tematica rispetto a Donald Trump, mentre il Vecchio Continente dovrà anche decidere cosa fare di tutti quei programmi di sostegno all’economia che ha messo su in fretta e furia in questi mesi per fronteggiare l’epidemia e i disastri che ha provocato sul tessuto produttivo. E soprattutto, nel caso volesse mantenerli, come finanziarli.

Secondo la Commissione Europea la nuova tassazione per le imprese dovrà implementare una ripartizione equa dei diritti di tassazione tra i paesi. Con un nuovo quadro fiscale societario tra i paesi ( Ccctb ) al posto della «vecchia» idea della base imponibile comune (Befit) di cui comunque si recupera l’idea della tassa minima sulle società. Che la vecchia proposta sia rimasta sul tavolo degli Stati Membri per cinque anni - dal 2016 - senza mai arrivare alla quadra oggi è un dettaglio del quale il commissario europeo all’economia non sembra voler tenere in gran conto, forte del fatto che oltreoceano anche Biden lavora a un modello per tassare le aziende che metta sotto torchio anche le big della Dot Economy. Partendo dalle vendite realizzate in un singolo paese e non dalla sede fiscale.

L’aliquota comune al 21% resta un’utopia

Il piano per l’Aliquota Fiscale Effettiva prevede che le multinazionali siano tassate dove generano i profitti secondo un piano che fermi una volta per sempre quella che viene considerata da molti elusione fiscale. E che pesa, secondo le stime, tra i 35 e i 70 miliardi l’anno a cui bisogna aggiungere i 50 miliardi delle frodi transfrontaliere sull’Iva e i 46 dell’evasione fiscale da parte degli individui.

Invece dell’aliquota comune al 21% ad oggi non c’è traccia: si trova ancora nella fase di negoziazione all’Ocse e la proposta di Washington dovrà superare le obiezioni dei paesi dai regimi fiscali più vantaggiosi. Compresi quelli europei: Irlanda, Olanda, Lussemburgo e Belgio in primo luogo. Secondo i piani di Bruxelles già l’anno prossimo le grandi società che operano nell’Ue dovrebbero pubblicare la loro aliquota fiscale effettiva, mentre ulteriori misure di trasparenza sono previste contro le società di comodo, chiamate a dimostrare di non essere delle coperture secondo la tecnica dell’inversione dell’onere della prova che in Italia non piace molto quando la pone in essere il fisco nostrano.

In programma c’è anche un prelievo per l’ambiente per il Green New Deal. Ma il tempo stringe. Il primo step per l’accordo globale è il G20 del prossimo luglio. Sarebbe bello se Bruxelles non si presentasse a quell’appuntamento a mani vuote.

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