In un momento di crescenti tensioni geopolitiche e frammentazione della catena di approvvigionamento, la politica industriale è quasi inevitabile.
Il commercio tra gli Stati Uniti e la Cina è cresciuto rapidamente dopo il 2001 ed è fondamentale per entrambi i Paesi. Attualmente gli USA importano più dalla Cina che da qualsiasi altro Paese e Pechino è uno dei maggiori mercati di esportazione di beni e servizi statunitensi.
Tuttavia, questioni importanti hanno costretto l’America a ripensare al modo in cui commerciare con la Cina. Gli scambi sono esplosi negli ultimi due decenni e questa relazione ha consentito agli Stati Uniti di avere prezzi più bassi per i consumatori e maggiori profitti per le società, ma ha anche generato rischi e costi. In particolare, la perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero statunitense, i trasferimenti forzosi e i furti di tecnologia a danno delle aziende americane (richiesta di condivisione coattiva delle proprie tecnologie come condizione per fare affari in Cina e spionaggio informatico e industriale), le ingenti sovvenzioni pubbliche alle imprese di Stato di Pechino che alterano il libero mercato, la manipolazione valutaria, le violazioni delle regole del lavoro e dei diritti umani, come il lavoro forzato nello Xinjiang.
Negli ultimi anni il governo degli Stati Uniti è arrivato a considerare l’interdipendenza con la Cina come una delle principali minacce alla sicurezza, alla prosperità e ai valori americani. Di fondamentale importanza è, in quest’ottica, il “disaccoppiamento tecnologico” tra i Paesi. Washington teme che Pechino possa sfruttare anche i collegamenti tecnologici per rubare segreti, diffondere disinformazione, sorvegliare i dissidenti, tenere in ostaggio le infrastrutture statunitensi e fare un balzo in avanti nella competizione economica. Di conseguenza, i funzionari statunitensi hanno cercato di ridurre sostanzialmente, anche se non completamente, il flusso di prodotti tecnologici, servizi e input da e verso la Cina.
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