Entro il 2039 il rapporto tra pensionati e lavoratori tenderà pericolosamente in favore dei primi. Ecco perché parlare oggi di cancellare la legge Fornero potrebbe essere prematuro.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una crescita esponenziale della spesa previdenziale, ma a preoccupare è anche il contributo per la spesa assistenziale.
Non ci sono, infatti, solo le pensioni: bisogna considerare anche altre misure di cui lo Stato si fa carico, come ad esempio le integrazioni al trattamento minimo per chi non è riuscito ad assicurarsi una pensione d’importo soddisfacente o l’assegno sociale per chi invece al raggiungimento dell’età pensionabile non ha sufficienti contributi per meritarsi una pensione.
A tal proposito, la situazione è destinata a peggiorare nei prossimi anni, specialmente quando andranno in pensione i nati tra gli anni ’60 e ’70. A spiegarne il motivo, in un’intervista rilasciata a Libero Quotidiano, è Natale Forlani, ex presidente di Italia Lavoro nonché ex direttore generale del ministero del Lavoro (tra il 2010 e il 2012).
Rischiamo di arrivare a un punto di non ritorno: guardando a cosa succederà nei prossimi anni, infatti, sembra impossibile riuscire a raggiungere un obiettivo ambizioso qual è il superamento della legge Fornero, riforma che nonostante le critiche ricevute in questi anni ha avuto il merito di salvare i conti pubblici dal collasso.
D’altronde, basti guardare a quanto successo da 2008, in quanto la spesa per le prestazioni a carico dell’Inps è raddoppiata passando da 73 a 140 miliardi di euro. Il problema è che quel che è successo negli ultimi 15 anni rischia di ripetersi, se non di peggiorare, in futuro visto che la popolazione in età lavorativa diminuirà in modo significativo.
“La situazione peggiorerà quando andranno in pensione i nati tra gli anni ‘60 e ‘70”
Come noto il sistema si regge grazie ai versamenti contributivi all’Inps: meno sono i lavoratori, quindi, e meno saranno le risorse a disposizione dell’Istituto. Ed è proprio questo il problema: già rispetto al 2019, infatti, c’è una differenza negativa di 650 mila persone in età da lavoro.
E se consideriamo la decrescita demografica a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, la situazione è destinata a peggiorare. Basti pensare a quando andranno in pensione i nati tra il 1960 e il 1970, anni del baby boomer: al 2039, infatti, avremo 1 milione e 600 mila pensionati in più, e ciò contribuirà a peggiorare il rapporto che c’è tra redditi da lavoro e pensioni.
Oggi, infatti, abbiamo 1 lavoratore ogni 0,65 pensionati, ma al 2039, il rapporto peggiorerà, in quanto ci sarà 1 lavoratore ogni 1,8 pensionati. Ma d’altronde, come spiega Forlani, già oggi se si considera il numero dei trattamenti percepiti, e non dei pensionati, ne risulta un rapporto di 1 a 1.
Senza dimenticare poi che in alcuni casi per i redditi da lavoro non vi è una contribuzione piena. Basti guardare a tutti gli sgravi contributivi introdotti negli ultimi anni per incentivare le assunzioni, per un totale di 200 miliardi di euro; interventi che hanno sì il merito di aumentare l’occupazione, ma allo stesso tempo “diminuiscono il contributo della forza lavoro anche in termini di volume”.
Quanto spendiamo per l’assistenza?
Un altro problema è che non possiamo rispondere a questa domanda con esattezza: in Italia, infatti, non è mai stata fatta una mappatura delle spese di assistenza. “Non sappiamo da quanti enti è assistita la stessa persona”, in quanto ad esempio non è possibile sapere se oltre all’Inps interviene anche il Comune.
Secondo Forlani questo è un problema tutto Italiano, poiché “in nessun altro Paese europeo esiste una misura come la pensione di cittadinanza, in quanto chi è povero riceve un sussidio ma non una pensione”. E aggiunge, in maniera lapidaria:
Qui invece ogni cosa è un pretesto per dare soldi a persone meno abbienti.
E va detto che i risultati raggiunti dalla spesa assistenziale non sono neppure soddisfacenti: nonostante lo Stato abbia speso un totale di 320 miliardi di euro in più negli ultimi anni, la povertà è comunque raddoppiata passando dai 2 milioni nel 2008 agli oltre 5 milioni attuali.
Ciò dipende, secondo Forlani, dal fatto che “la poverà sia diventata un pretesto per dare soldi a chiunque si dichiara povero”, in quanto l’Inps non ha strumenti adeguati per accertare qual è il vero reddito percepito. C’è il rischio, quindi, di riconoscere dei sostegni a chi non ne avrebbe diritto, e di escludere invece chi povero lo è realmente ma non ha i mezzi per poter accedere ad alcune prestazioni.
Così c’è solo dispersione di risorse, “non si riesce a cogliere il bersaglio”.
Bisogna guardare agli esempi virtuosi, si pensi ad esempio all’assegno unico che - come sottolineato da Forlani - a fronte di 7 miliardi di euro spesi ha ridotto la povertà del 3,4%. Diverso il caso del reddito di cittadinanza, che a fronte di 28 miliardi di euro spesi ha contribuito a ridurre la povertà di appena l’1,4%.
In queste condizioni, si può ragionare sul superamento della legge Fornero?
Non è un mistero che in queste settimane inizieranno i confronti tra governo, sindacati e associazioni datoriali con l’obiettivo di ragionare su una riforma delle pensioni che - ad esempio estendendo a tutti la possibilità di accedere a Quota 41 - abbia il merito di cancellare la legge Fornero del 2011.
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Ma tenendo conto di quanto succederà nei prossimi 15 anni, è lecito aspettarsi la cancellazione di una riforma che ha avuto il merito di far risparmiare dal 2011 al 2020 fino a 22 miliardi di euro, più dell’1,4% del Pil, e che continuerà a garantire risparmi fino al 2030, quando la curva scenderà progressivamente fino ad attestarsi allo 0,8% del Pil? E ulteriori risparmi ci saranno negli anni successivi, fino al 2045.
Rinunciare oggi alle regole imposte dalla Fornero potrebbe essere prematuro, specialmente quando, sicuramente nel 2039 ma probabilmente anche prima, il rapporto tra lavoratori e pensionati tenderà pericolosamente a favore di quest’ultimi.
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