Avere uno stipendio e non arrivare a fine mese: è questa la situazione in cui si trova circa il 12% dei lavoratori italiani. Urge una soluzione per evitare che “sparisca un’intera generazione”.
Avere un lavoro non ti mette al riparo dalla povertà, specialmente in Italia. È questo quanto emerge dall’ultimo report dell’Eurostat (relativo al 2016) secondo il quale in Italia circa 12 lavoratori su 100 non guadagnano abbastanza per arrivare alla fine del mese.
Un fenomeno che in inglese viene definito come “working poor”. L’Italia naturalmente non è un caso isolato dal momento che in ogni Paese c’è una percentuale di lavoratori che percepisce uno stipendio insufficiente a compensare tutte le spese necessarie per mandare avanti la famiglia. Il problema è che in Italia questa percentuale è superiore alla media europea: 11,7% contro il 9,6% dell’UE.
Un dato allarmante specialmente se si somma alle previsioni sulle sulle pensioni future; secondo i dati Censis, infatti, circa 5,7 milioni di giovani tra poco più di 30 anni rischiano di percepire una pensione inferiore alla soglia di povertà. Rischiamo di diventare un Paese dove né uno stipendio né la pensione saranno sufficienti per arrivare alla fine del mese senza patemi d’animo.
Ecco perché urge assolutamente una soluzione per evitare che l’Italia, come dichiarato dal presidente di Confcooperative Maurizio Gardini, “perda un’intera generazione”.
Secondo il presidente di Confcooperative ci troviamo di fronte ad una vera e propria “bomba” che va assolutamente disinnescata, cercando di trovare una soluzione affinché ai giovani millennials vengano garantite le stesse “opportunità che hanno avuto i loro padri”.
Le possibili soluzioni
D’altronde sono anni che si discute su quali soluzioni adottare sia per risolvere il problema del working poor che per dare ai giovani la sicurezza di una pensione futura.
Molte di queste soluzioni sono state spiegate dai vari schieramenti politici in campagna elettorale; ad esempio il Movimento 5 Stelle ha lanciato l’ambiziosa - ed onerosa - proposta di un reddito di cittadinanza, così da impedire che una famiglia percepisca un reddito inferiore alla soglia di povertà. Lo stesso vale per i pensionati, ai quali per lo stesso motivo verrebbe riconosciuta una pensione di cittadinanza.
Un progetto che a molti pare poco realizzabile vista la difficoltà di trovare le risorse necessarie (circa 20 miliardi di euro secondo il M5S) per riconoscere il reddito di cittadinanza agli aventi diritto.
Un’altra soluzione possibile è quella del salario minimo, proposta da Matteo Renzi. L’obiettivo è appunto quello di garantire uno stipendio minimo a tutti i lavoratori, in modo da limitare il più possibile il fenomeno del “working poor”.
Ma per aumentare gli stipendi, così da permettere a chi ogni giorno impiega la maggior parte del suo tempo lavorando di arrivare alla fine del mese, bisognerebbe anche ridurre le tasse sul lavoro; solo in questo modo le imprese potrebbero utilizzare una parte di quanto risparmiato per aumentare gli stipendi, oltre che per assumere nuovo personale.
Al momento però in Italia non c’è nulla di tutto questo; ecco perché ci troviamo di fronte a dati allarmanti come quelli riportati dall’Eurostat, secondo il quale ci sono circa 12 lavoratori su 100 che si trovano in una situazione di povertà. Un dato che potrebbe anche aumentare nei prossimi anni; basti pensare che nel nostro Paese tra il 2015 e il 2016 c’è stato un incremento del 23% dei working poor.
La situazione nel resto d’Europa
Ci sono Paesi però che si trovano in una situazione persino peggiore della nostra: è il caso ad esempio della Romania (dove quasi 1 lavoratore su 5 è povero), della Grecia (14,1%), della Spagna (13,1%) e del Lussemburgo (12%).
Sopra la media Europea anche Bulgaria (11,4%), Portogallo (10,9%) e Polonia (10,8%) che comunque fanno meglio dell’Italia.
I Paesi migliori dove lavorando si riduce al minimo il rischio povertà sono la Finlandia - dove si vive meglio e si guadagna di più - con il 3,1% di working poor, la Repubblica Ceca (3,8%), il Belgio (4,7%) e l’Irlanda (4,8%).
Naturalmente il rischio povertà è maggiore per alcuni contratti; ad esempio il 15,8% di occupati part-time non riesce ad arrivare a fine mese con il proprio stipendio, mentre questa percentuale si dimezza (7,8%) per i contratti full-time. Il 16,2% di coloro che hanno un contratto a tempo determinato possono definirsi “poveri”, contro il 5,8% di chi è assunto con un contratto indeterminato.
Tra donne e uomini sono quest’ultimi a rischiare maggiormente la povertà: il 10% contro il 9,1% delle donne occupate.
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