Queste offese sono legali per la Cassazione, quali sono e perché

Ilena D’Errico

11 Gennaio 2025 - 22:15

Ecco quali parolacce sono offese legali secondo la Cassazione e quando, invece, sei perseguibile legalmente.

Queste offese sono legali per la Cassazione, quali sono e perché

Parolacce e insulti sono parte della comunicazione, per quanto sgradevoli e ineducati. Le offese non ledono soltanto la sensibilità altrui ma anche la reputazione e il benessere dell’interessato e il decoro pubblico. Per questi motivi, va contro la legge chi offende con toni impropri e usa termini volgari, almeno a certe condizioni. Non sempre, però. La giurisprudenza della Cassazione aiuta bene a comprendere in quali casi anche lo scoppio d’ira è giustificato, con una vera e propria lista di offese legali per cui non si è perseguibili.

Diffamazione, ingiuria e turpiloquio

La diffamazione è un reato che si configura con un’offesa alla reputazione altrui in assenza del diretto interessato e alla presenza di altre persone. Insulti e parolacce possono integrare la fattispecie penale quando sussistono queste condizioni, come confermato dalla giurisprudenza. È però necessario che le offese siano rivolte alla rispettabilità e all’onore della persona, senza alcun altro fine. Per esempio, alludere alla relazione extraconiugale del coniuge altrui, indipendentemente dalla veridicità del fatto, può configurare un reato. Secondo l’articolo 595 del Codice penale, la diffamazione è punita con la reclusione fino a 1 anno e la multa fino a 1.032 euro. La pena può inoltre essere aumentata in caso di aggravanti.

Se l’offesa viene fatta in presenza della vittima non sussiste il reato di diffamazione, bensì l’illecito amministrativo dell’ingiuria. Quest’ultima è punita con una sanzione pecuniaria da 100 a 8.000 euro, oltre al risarcimento danni in favore della persona offesa, che sale a un intervallo tra 200 e 12.000 euro se il fatto viene commesso in presenza di più persone (o con l’attribuzione di un fatto determinato). Questo è l’illecito che più spesso riguarda insulti, parolacce e altri epiteti poco carini da ricevere. La persona offesa può quindi agire in giudizio o accordarsi per un risarcimento, mentre nelle ipotesi di diffamazione dovrà sporgere querela ed eventualmente costituirsi parte civile per avere comunque il risarcimento.

Ci sono altre ipotesi in cui gli insulti integrano comportamenti illegali, tra reati e illeciti amministrativi. Non si tratta tuttavia di circostanze che dipendono prettamente dalle parole utilizzate, né per le quali ha senso parlare di parolacce legali. Si parla infatti di situazioni particolari e gravi come lo stalking, i maltrattamenti, le minacce e le molestie. In questi casi, come anche per alcuni illeciti molto specifici, sono presenti elementi ben caratterizzanti. Tra ingiuria o diffamazione e l’assenza di profili legalmente rilevanti la valutazione è invece ancor meno scontata. Ecco perché è utile farsi aiutare dalle interpretazioni della Corte di Cassazione.

Parolacce legali secondo la Cassazione

Secondo la sentenza n. 34442/2017 della Cassazione se dici a qualcuno “Cog…..e” intendendolo nel senso di sprovveduto non commetti illeciti o reati. Lo stesso vale per “rompip…e” secondo la sentenza n. 22887/2013, quando inteso come seccatore. La Corte legalizza anche le parole ormai entrate nel lessico comune, utilizzate oggi senza particolari finalità offensive o ingiuriose (Vaff…...o, Hai rotto i cog….i, Caz…e). La sentenza n. 17672/2010 ricorda inoltre quanto sia importante l’analisi del contesto e delle finalità, riferendosi nello specifico all’ambito lavorativo, dove per spronare qualcuno e aprire un dibattito è ammesso anche un linguaggio edulcorato (come pazzo, scemo, lecca…o, dalla sentenza).

Parole meno forti possono al contrario dar luogo al reato di diffamazione o comunque all’ingiuria, quando prese nelle circostanze specifiche costituiscono una vera e propria offesa alla reputazione della persona interessata. Tanto per citare un esempio comune nelle aule di tribunale, bisogna adeguare il modo di parlare dinanzi a un pubblico ufficiale, non perché non ci sia la libertà di esprimere la propria opinione ma perché non bisogna oltraggiare il ruolo ricoperto dal soggetto. La sentenza n. 9200/2020 della Cassazione ricorda in particolare l’importanza dell’intenzione di chi proferisce determinate parole, anche più del loro significato letterale.

Si tratta di un principio fondamentale per comprendere il confine tra un’esclamazione infelice e un illecito, soprattutto in contesti nei quali gli animi si scaldano comprensibilmente. Dinanzi alle forze dell’ordine, tuttavia, resta importante anche la forma con cui ci si esprime per non ledere il decoro della divisa.

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