Un’uscita senza un accordo con le autorità europee provocherebbe un choc per l’economia e in particolare per alcuni settori, per i quali il conto da pagare si annuncia più salato.
Dopo il rinvio del voto sull’accordo raggiunto con le autorità europee, Theresa May si è messa in viaggio per provare a trovare una soluzione. Nonostante la netta chiusura di Juncker, il presidente della Commissione Ue ha già fatto sapere che “quel patto non si tocca e i negoziati non si riaprono", oggi per la premier sono previsti incontri con il primo ministro olandese, con Angela Merkel e con lo stesso Juncker.
Ovviamente più passano i giorni, più lo spettro di un no-deal, di un mancato accordo, diventa concreto. Morningstar ha provato a capire quali sarebbero settori e titoli più penalizzati e quali invece potrebbero avvantaggiarsi in caso di hard Brexit.
Il più penalizzato? Il comparto auto
Gli analisti di Morningstar hanno sottoposto a stress test le aziende del Vecchio continente e del Regno Unito più esposte all’economia inglese e alla Brexit. “Dallo studio emerge che l’industria più colpita da una dinamica turbolenta di divorzio sarebbe quella automobilistica” a causa degli stretti rapporti commerciali “sia nel segmento della produzione di veicoli sia nella componentistica”. Nello scenario peggiore, spiega Alex Morozov, responsabile della ricerca equity di Morningstar in Europa, le valutazioni potrebbero scendere in media del 14%.
Oltre all’automotive, un altro settore a rischio è quello bancario. “La più grande distruzione di valore per gli istituti di credito si ha quando devono aumentare il capitale per far fronte a problemi di solvibilità o liquidità”, dice Morozov. “Tuttavia, crediamo che la volontà della Bank of England di intervenire in caso di necessità sia di vitale importanza per permettere alle banche di superare le fasi critiche”.
Nel caso dell’industria della difesa e aerospaziale, il timore di una Brexit sta già producendo un innalzamento delle scorte per fronteggiare ad eventuali ritardi nelle consegne tra Gran Bretagna e Unione. “In questo modo, potrebbero comprimersi i flussi di cassa, ma non necessariamente i ricavi. Nel più lungo periodo, vanno considerati i rischi di ricollocazione della produzione fuori dal Regno Unito e di minori opportunità di collaborare a programmi militari e di difesa nel continente”.
Allargando lo sguardo all’intera economia, il peggioramento della congiuntura economica innescato dal no-deal finirebbe per penalizzare i produttori di beni strumentali ciclici (ad esempio, il settore della logistica).
“Le multinazionali di beni di consumo, invece, dovrebbero soffrire meno”, dice Morozov. “Molte di loro hanno un ampio vantaggio competitivo (Economic moat). Inoltre, sono più diversificate a livello geografico. Per operatori globali come Unilever, Nestle e Danone, il Regno Unito rappresenta il 5% o meno dei ricavi totali, per cui l’impatto di una stagflazione non sarebbe significativo”.
Insomma, “speriamo per la migliore soluzione, ma prepariamoci al peggio”.
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