La Legge di Bilancio modifica la web tax eliminando i limiti di fatturato per l’applicazione, Senza un intervento dal 2025 saranno assoggettati al pagamento del 3% anche editoria e pmi digitali.
La Legge di Bilancio 2025 vuole estendere la web tax al 3% a tutte le imprese che realizzano ricavi da servizi digitali e questo coinvolgerebbe anche le piccole e medie imprese e gli editori online. La cosa sta scatenando non poca polemica visto che a oggi l’imposizione fiscale al 3% è dovuta solo dalle aziende che realizzano ricavi di almeno 750 milioni di euro di cui almeno 5,5 milioni derivanti da servizi digitali. Ovviamente la misura coinvolge soltanto le aziende che ottengono questi ricavi sul territorio italiano.
Fino ad oggi la web tax è stata anche poco conosciuta proprio a causa del perimetro di applicazione abbastanza limitato. Solo i giganti del web come Amazon o Google si sono trovati nel perimetro di azione della tassa mentre con le modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2025 ad essere colpite dall’imposizione sarebbero anche tutte le piccole imprese digitali e ogni giornale online, a prescindere dal volume di affari.
La web tax è già applicata alle Big-tech, ma desta stupore l’estensione a tutti coloro che lavorano anche nel digitale, tra questi l’“industria dell’informazione”. Ampia preoccupazione è stata espressa non semplicemente per l’imposta in sé, ma anche (e soprattutto) sulla determinazione della base imponibile rappresentata dal fatturato e non dall’utile - con differenze in termini pratici che possono essere notevoli per molte imprese.
Ecco cosa succede se viene confermata la web tax nella manovra di bilancio 2025.
Web tax estesa nella Legge di Bilancio 2025
La web tax è stata introdotta con la legge 145 del 2018, articolo 1, comma 35, che stabilisce: “è istituita l’imposta sui servizi digitali”. Il successivo comma 36 fissa i principi cardine e in particolare le soglie di applicazione elevate.
L’articolo 4 del disegno di Legge di Bilancio 2025 sostituisce proprio tale comma 36. Nella formulazione iniziale, attualmente in vigore, sono previste soglie di fatturato elevate, il nuovo testo, se introdotto nella formulazione proposta, recita:
“Sono soggetti passivi dell’imposta sui servizi digitali i soggetti esercenti attività d’impresa che realizzano ricavi derivanti da servizi digitali di cui al comma 37 nel territorio dello Stato”.
Senza un intervento sul testo della Legge di Bilancio, quindi, dal 2025 sarebbero assoggettate all’imposta tutte le aziende che hanno dei ricavi dai servizi digitali: coloro che li vendono, ad esempio, e anche chiunque ha siti online. La stampa online e le imprese del settore digitale si troverebbero a dover pagare, oltre alla normale imposizione anche la web tax al 3%.
Da tenere presente, inoltre, che l’imposizione al 3% si applica sui ricavi e non sigli utili: per le imprese in perdita potrebbe, quindi, avere un effetto davvero nefasto.
Sparisce, quindi, ogni riferimento a soglie di ricavi.
Il comma 39, invece, stabilisce “I ricavi tassabili sono assunti al lordo dei costi e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette.” Questo è il concetto di fatturato che a breve vediamo in termini più semplici.
Naturalmente non mancano critiche e riguardano diversi aspetti:
- determinazione della base imponibile;
- effetto a cascata su aziende che accedono ai servizi digitali forniti da terzi;
- ripercussioni nel mondo dell’editoria.
Chi dovrebbe pagare la Web tax dal 2025?
A stabilire l’ambito di applicazione della web Tax è il comma 37 della stessa legge, la quale prevede che sono tenuti al versamento della tassa i ricavi dai seguenti servizi:
- veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia;
- messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi;
- trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
Non sono, invece, considerati servizi digitali soggetti a imposizione:
- la fornitura diretta di beni e servizi, nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale;
- la fornitura di beni o servizi ordinati attraverso il sito web del fornitore di quei beni e servizi, quando il fornitore non svolge funzioni di intermediario;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia, da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa, di contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale utilizzata per gestire: regolamento bancario, servizio di pagamento e di comunicazione.
Imposta sul fatturato e non sugli utili. Effetti devastanti per PMI
Le critiche alla nuova web tax estesa arrivano soprattutto dagli operatori del settore e in primo luogo da Netcomm (consorzio del Commercio Digitale in Italia). Si tratta di soggetti che riescono meglio di altri a determinare le conseguenze che la nuova imposizione può avere.
Per capire gli effetti distorsivi che possono esservi deve essere fatta una piccola premessa. Il tessuto imprenditoriale italiano è costituito al 90% da PMI.
La critica principale che muove Netcomm è alla determinazione della base imponibile della tassa sui servizi digitali. Questa è determinata dal fatturato e non dagli utili con effetti devastanti per le aziende che operano con margini di profitto ridotti. L’aliquota applicata è al 3%.
Per piccole e medie imprese la nuova tassa sui servizi digitali potrebbe comportare esborsi eccessivi rispetto alle entrate e un notevole aumento della pressione fiscale.
Ricordiamo che l’utile in azienda rappresenta il profitto effettivamente realizzato dopo aver sottratto tutti i costi e le spese necessarie per produrre un bene o un servizio.
Il fatturato, invece, è la somma degli importi delle fatture emesse (eliminate Iva e altre imposte indirette) ne deriva che il fatturato è sempre molto più alto dell’utile e comprende anche voci negative (ad esempio il costo del lavoro).
Un altro esempio può rendere chiara la differenza tra fatturato e utile: un’azienda che produce lattine di aranciata e le distribuisce attraverso un e-commerce, nelle fatture comprende il prezzo praticato per le aranciate, quel prezzo ovviamente prevede un margine di guadagno, ma è comprensivo anche dei costi per la produzione: dall’energia elettrica al costo della lattina, passando per le arance, lo zucchero, l’acqua (materie prime) e gli stipendi dei lavoratori. Ovviamente appare chiaro che il costo sostenuto per procurarsi le lattine vuote, lo zucchero, le arance, non è un profitto/utile, rientra però nel fatturato e quindi la web tax colpisce anche tali voci.
Effetto domino per le imprese nella nuova tassa sui servizi digitali
Gli effetti non finiscono qui perché Netcomm ipotizza un effetto a cascata o effetto domino. Aumentando la tassazione, le imprese sono “costrette”, per mantenere un margine di profitto vitale, ad aumentare i prezzi praticati per i loro servizi.
Spesso le imprese per offrire servizi digitali a loro volta si rivolgono ad altre aziende che forniscono servizi specifici sempre digitali: software, App, gestione di piattaforme per e-commerce, pubblicità online e servizi connessi alla digitalizzazione. Queste imprese dovranno pagare i servizi a un prezzo maggiorato e dovranno ulteriormente aumentare i prezzi per i clienti finali.
Ad esempio un negozio fisico decide di integrare i servizi offerti con un e-commerce e si affida a un’azienda per la gestione della piattaforma, dovrà pagare un costo più elevato per i servizi acquistati e dovrà versare l’imposta sui servizi digitali perché offre anche servizi digitali. Ovvio che può essere strozzata da questa condizione e allo stesso tempo può perdere competitività se nell’era attuale rinuncia a offrire servizi digitali. Se non riesce più a ottenere profitto è costretta a terminare l’esercizio.
L’effetto domino non finisce qui e nel tempo può nuovamente riversarsi su una contrazione delle entrate fiscali, in particolare, l’Italia con la nuova tassa sui servizi digitali estesa diventa poco interessante per start up e per investitori esteri, il rischio è che si perdano imprese.
Netcomm sottolinea che, soprattutto nei primi anni, le start up spesso operano in perdita e non sarebbero in grado di affrontare la Web Tax basata non sugli utili ma sul fatturato. La conseguenza è che potrebbero rinunciare a investire in Italia e preferire fissare la sede altrove.
Si sottolinea un ulteriore effetto distorsivo: la web tax nasce con l’obiettivo di limitare i vantaggi per i grandi della Big-Tech, cioè multinazionali, e favorire le imprese italiane. Con questa estensione vengono vanificati i principi cardine e si crea un nuovo squilibrio, infatti le PMI soffrono già una pressione fiscale elevata e soprattutto versano contributi previdenziali a cui non sono tenute le multinazionali (tranne il caso delle sedi in Italia per i lavoratori impegnati nelle stesse.)
Informazione digitale, editoria, libertà di stampa
L’ultimo punto nevralgico della nuova web tax estesa riguarda il settore dell’informazione digitale. La federazione degli editori, Fieg, sottolinea che la tassa sui servizi digitali nasce con l’obiettivo di tassare i grandi operatori del web che di fatto hanno ridotto la competività delle piccole e medie imprese e ora viene snaturata da questo articolo del disegno di Legge di Bilancio 2025 che va a colpire proprio le categorie che si volevano aiutare cioè le PMI.
La Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) ricorda che la web tax estesa toglie risorse al mondo dell’informazione che in realtà avrebbe bisogno proprio di maggiori risorse e ricorda che l’industria dell’informazione ha una valenza costituzionale. Infine, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti sottolinea:
“L’estensione della web tax a tutti gli operatori dell’informazione, indipendentemente dalle loro dimensioni, è una scelta ingiustificata e incomprensibile”.
Appare ovvio che la libertà di stampa si fonda sull’autonomia e indipendenza economica, ridurre i margini con un’ulteriore tassazione porta la necessità di reperire redditi ulteriori che possono essere fonti di pressioni.
leggi anche
Global minimum tax, arrivano le norme attuative
Le polemiche sulla nuova web tax
La scelta di estendere l’applicazione della web tax a tutte le imprese digitali è considerata da molti inappropriata e proprio per questo la Fieg, a nome degli editori italiani, ha chiesto al Parlamento una correzione della misura che, altrimenti, colpirebbe le imprese digitali italiane sottoponendole a una duplice tassazione (in questo modo risulterebbe ancora più marcato lo squilibrio tra le piccole imprese digitali e i colossi del web).
Oltre a Confartigianato, Cna, Cassartigiani, Fieg e Confapi, anche Forza Italia si è dichiarata contraria alla web tax generalizzata e ha promesso battaglia per fare in modo che la misura venga ripristinata come era in precedenza o quanto meno corretta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA