Il deprezzamento dello Yuan potrebbe rivelarsi un problema per i mercati azionari mondiali. Lo spiega Alfonso Maglio, Head of Research Department di Marzotto Investment House
Di recente lo Yuan cinese, anche chiamato Renmimbi, ha toccato un minimo relativo molto importante nei confronti del dollaro statunitense. Il valore del cambio Usd/Cny fra ieri e oggi ha veleggiato in area 6,97-6,98, una distanza molto ravvicinata dai livelli toccati l’ultima volta nel 2008.
La dinamica sarebbe stata innescata dalla notizia secondo cui gli Stati Uniti si starebbero preparando ad annunciare, per i primi giorni di dicembre, nuovi dazi per 257 miliardi di dollari su tutti i restanti beni di importazione cinese, a patto che i colloqui programmati per il mese prossimo tra il presidente Usa Donald Trump e l’omologo cinese Xi Jinping non dovessero portare a progressi significativi.
Secondo diversi esperti quella del cambio fra Yuan e dollaro Usa dovrebbe essere una fra le variabili da seguire con maggior attenzione nell’attuale contesto di mercato. Come afferma Alfonso Maglio, Head of Research Department di Marzotto Investment House:
Le tensioni commerciali con gli Stati Uniti hanno fatto sì che il tasso di cambio potesse essere utilizzato come da Pechino come strumento di risposta ai dazi voluti dal Presidente americano Donald Trump. Da questo punto lo Yuan si è deprezzato: infatti, se le tariffe rendono i prodotti cinesi meno competitivi, la diminuzione di valore della divisa cinese sopperisce all’incremento di prezzo dovuto ai dazi.
Il cambio Usd/Cny dal 1990. Fonte: Bloomberg
Fino al 2005 l’enorme crescita economica cinese è stata aiutata molto dal tasso di cambio mantenuto volutamente basso in modo da privilegiare l’export.
Successivamente al 2005 si è resa necessaria una maggior flessibilità della cosiddetta “valuta del popolo”, per compensare in qualche modo gli squilibri che creava nelle economie mondiali, penalizzate dall’eccessiva competitività cinese. Ecco perché dal 2005 in avanti lo Yuan, dapprima legato al dollaro americano, viene ancorato ad un paniere di valute internazionali, con la banca centrale cinese che interviene ogni giorno per tenere la valuta entro un range di oscillazione massimo dello 0,3% (poi passato allo 0,5% dopo il 2010).
Il nodo del surplus cinese: un bene o un male?
Fino ad ora il surplus di capitali della Cina è stato reinvestito in titoli di Stato americani, elemento che ha permesso agli Usa di gestire il deficit con poche conseguenze sui tassi di interesse. “Non è da escludere che le tensioni commerciali fra i due lati del Pacifico possano rivelarsi un boomerang per il presidente Trump, dal momento che rimuovere il surplus cinese causerebbe di conseguenza un aggravio dei costi di finanziamento per gli Usa”, sostengono gli analisti di Swissquote Peter Rosenstreich e Vincent Mivelaz.
Nonostante ciò, al momento i mercati sembrerebbero continuare ad essere ribassisti sul fronte cinese, mentre gli asset americani finora hanno sofferto solo marginalmente le vendite.
Un altro nodo concerne la delocalizzazione in Cina di parti o della totalità del processo produttivo da parte di aziende statunitensi. Le tariffe aumentano i costi dei prodotti finiti, riducendo in questo modo i margini di guadagno di queste società. Dall’altro lato, se queste aziende tornassero a produrre in America, dovrebbero fare i conti con un aumento del costo del lavoro e, più in generale, spese maggiori.
Ciò spingerebbe al rialzo l’inflazione e le società avrebbero comunque margini minori.
Secondo l’Ufficio studi di Marzotto Investment House “ulteriori deprezzamenti dello Yuan impatterebbero sui mercati azionari, in quanto le valute dei Paesi emergenti che competono merceologicamente con la Cina entrerebbero in un periodo di ulteriore difficoltà, e sarebbero costretti a svalutare la loro moneta. Sempre in relazione agli emergenti, quei Paesi con elevato debito in valuta estera entrerebbero in crisi. Inoltre potrebbero attivarsi meccanismi inflattivi nel mercato statunitense per quanto riguarda i beni a bassa elasticità di prezzo”.
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