Viviamo in una nuova era, un tempo di mezzo che ha una propria grammatica, non sempre facile da metabolizzare ma che può essere un grande volano. Ne abbiamo parlato con Paolo Iabichino.
Dalla sua nascita a oggi, l’intero mondo ha conosciuto la propria evoluzione attraverso veri e propri scossoni che classifichiamo come ere geologiche. In questo continuo magma e divenire c’è stata anche la volta dell’uomo e della suo progresso che ci ha portato nella fase dell’Antropocene. Da quel momento in poi l’Homo Sapiens è stato protagonista indiscusso degli eventi di questo universo e, benché il termine che identifichi tale attività sia relativamente giovane (apparve per la prima volta negli anni 2000 ma fu teorizzato nella seconda metà del 1800 dal geologo Antonio Stoppani), racchiude l’essenza del progresso, del salto di specie e della Storia stessa.
È fuori discussione che dalla domesticazione del fuoco a oggi i nostri avi di peripezie, progressi, successi e sconfitte ne abbiano visti e vissuti a iosa. In realtà un lustro fa Jason W. Moore ha proposto di definire l’era in cui viviamo Capitalocene dal momento che l’epoca contemporanea è regolata più da parametri economici che da quelli biologici ma è dalla pandemia in poi che si è venuta a creare una vera e propria strozzatura storica dalle proporzioni inimmaginabili e forse non ancora messe totalmente a fuoco essendo noi stessi, l’umanità del 21° secolo, attori e fautori. Lo ha ben descritto e definito Paolo Iabichino in #Ibridocene, suo ultimo libro edito da Hoepli per la collana Tracce che egli stesso dirige e mai definizione è stata più calzante per l’epoca contemporanea.
La grammatica e la semantica dell’Ibridocene
l’Ibridocene, dunque, è un tempo “sospeso” e di mezzo che ci vede esattamente a metà come se fossimo su un binario tra una vita off e online e che, però, converge nella nostra esistenza umana. Tale nuovo “salto di specie” è stato uno degli effetti della pandemia e benché ci si dimeni tra fisico e virtuale un fatto è certo: il digitale è divenuto per dirla con le parole dell’autore “orizzonte di possibilità per il mondo fisico” dove al centro dobbiamo restare noi in quanto essere umani. Questo non significa demonizzare o voler a tutti i costi polarizzare ciò che c’era prima: non c’è un giusto o uno sbagliato nella scelta di voler continuare a vivere in una dimensione piuttosto che nell’altra. I problemi nascono quando viene a mancare quella vitale osmosi che possa permettere il prosieguo della specie e dalle cesure storiche come quella che stiamo ancora vivendo non ne traiamo i giusti vantaggi. Rispetto ai nostri antenati, noi oggi abbiamo un grandissimo vantaggio e, forse, neanche ce ne rendiamo conto: non solo siamo attori ma anche fautori stessi di quanto sta accadendo, lo possiamo raccontare nel mentre e questo nella storia rappresenta una sorta di unicum.
Ecco, quindi, che se riuscissimo a cambiare l’approccio mentale, saremmo in grado anche di assorbire la grammatica dell’Ibridocene e a dare il giusto valore ai significati delle parole e a cogliere il significante primigenio di termini tanto abusati ultimamente quali contaminazione qualità, progresso, sostenibilità, resilienza e innovazione, tanto per citarne alcune. Le parole contano, sono quelle che ci distinguono dagli altri esseri viventi, traducono la contemporaneità in cui viviamo e vi è il dovere morale e sociale di saperle usare bene. Le parole sono alla base dei protocolli di rete su cui ogni giorno online ci muoviamo, comunichiamo, lavoriamo e a maggior ragione vanno adoperate con grande responsabilità (altra bellissima parole di cui va custodito il significato) perché ora come non mai devono trasformarsi in fatti: per il rispetto della nostra identità e del nostro futuro.
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