Le valutazioni di Central Appalachia e Illinois volano sopra i 100 dollari a tonnellata, cortocircuitando l’agenda green. E in Francia si raziona, a fronte di prezzi record. E continui stop nucleari
La scorsa domenica notte, in Francia si è registrata la temperatura minima più bassa dal 1947, stando ai dati di Meteo France. E a quel picco è corrisposto un altro primato, come mostra questo grafico:
il costo dell’elettricità a Parigi nella fascia oraria 8-9 del mattino ha toccato i 2.987.89 euro per megawatt-ora, mentre il prezzo medio per l’intera giornata ha raggiunto 551,43 euro all’asta di Epex Spot SE, il massimo dall’ottobre 2009. Un’impennata talmente drastica e repentina da spingere al rialzo il massimo di upper limit per il prezzo dell’elettricità nelle Borse energetiche di tutto il Vecchio Continente.
D’altronde, un aprile così freddo necessita riscaldamento. E se il prezzo ha raggiunto il massimo da 13 anni a questa parte, una buona quota di responsabilità ricade anche sulla strana catena di guasti e manutenzioni straordinarie che stanno colpendo i 56 impianti nucleari gestiti da Electricite de France SA: attualmente, 25 sono fermi. Quasi la metà. Proprio nel momento in cui servirebbero di più. E a confermare la contingenza senza precedenti ci ha pensato il gigante della grande distribuzione Carrefour, il quale ha immediatamente risposto presente all’appello dell’operatore energetico nazionale RTE e ha imposto l’abbassamento del riscaldamento in tutti i suoi uffici e, soprattutto, quello dell’illuminazione nei 400 punti vendita del gruppo in tutto il Paese.
Insomma, spesa con le luci soffuse. Molto romantico. Molto francese. Quasi un’atmosfera da bistrot di Montmartre. Peccato che alla base non vi sia un preciso e strategico piano seduttivo da film di Eric Rohmer, bensì una chiara emergenza energetica. Quanto acuita nel suo impatto e nella sua percezione, questo appare ancora tutto da decifrare, però. Perché mentre la Francia attende l’arrivo della primavera per non andare a letto con il maglione di lana, in sede europea va in onda l’ennesima pantomima sulle nuove sanzioni contro la Russia. Debitamente veicolate dall’indignazione per il Grand Guignol di Bucha, le buone intenzioni dei Paesi europei si scontrano infatti con una recessione ormai acclarata: Germania e Austria, nazioni che insieme all’Italia sono i più dipendenti dalla pipeline di Gazprom, hanno posto il veto sul gas. Ecco quindi avanzare il solito compromesso ipocrita: al vaglio, misure punitive sull’export russo di petrolio e carbone.
E se nel primo caso occorre registrare come gli Usa si siano uniti a Cina e India nello shopping sfrenato di greggio degli Urali offerto a prezzo di saldo, necessario grazie alla sua pesantezza per il loro fracking e acquistato per un 43% in più la scorsa settimana (oltre 100.000 barili al giorno, sfruttando il patetico mezzuccio dei 45 giorni di grace period), nel secondo parla questo grafico:
casualmente, la mossa apparentemente inutile sul combustile fossile più inquinante al mondo, il vero babao degli ultimi anni di sbornia green, negli Usa sta diventando la next big thing del comparto. Sia il Central Appalachia che l’Illinois Basin hanno sfondato quota 100 dollari a tonnellata, per la prima volta dal 2008 nel primo caso e addirittura dal 2005 per il secondo. Brutte notizie per la bolletta degli statunitensi e per il clima in generale, visto che in pressoché perfetta contemporanea, il panel di esperti climatici dell’Onu ha messo in guardia dai rischi devastanti di uno stop al programma di transizione e di un ritorno forzato a combustibili inquinanti.
Ma per ora, foreste e bollette possono attendere. Parla questo altro grafico,
il quale mostra quale quota di mercato strategica stia per aprirsi di fronte agli occhi dei produttori Usa di carbone, in caso l’Europa scegliesse di evitare il suicidio delle sanzioni sul gas e optasse per quelle apparentemente meno mortali su petrolio e carbone. La Russia pesa infatti per il 18% delle esportazioni mondiali di quel combustibile ed è terza al mondo, dopo Indonesia e Australia. Già lo scorso anno, le esportazioni statunitensi di carbone sono aumentate del 23% e per quest’anno Bank of America stimava un ulteriore +3,3%. Ma ora lo scenario potrebbe mutare. E garantire una sorta di cartello che veda Washington insidiare il ruolo della Russia, in seno a quello che diventerebbe un triumvirato decisamente scomodo per Russia e Cina: se infatti l’Australia ha già siglato il patto di cooperazione con Usa e Regno Unito, l’Indonesia sta casualmente per negoziare un memorandum d’intesa bilaterale con Washington su una serie di materie, dalla lotta al Covid alla difesa (gli Usa hanno finanziato praticamente per intero la base navale di Batam alle Riau Islands) e appunto all’energia.
Insomma, se la green agenda dovesse andare in pensione anticipata o quantomeno in congedo forzato da emergenza bellica, gli Usa sarebbero a un passo dal segnare un clamoroso colpo nel mercato del carbone. E questo grafico
mostra quanto e come sia strategico l’argomento, poiché rappresenta materia di negoziazione con la Cina e la sua dipendenza da Mosca ma anche e soprattutto con l’Europa, già in procinto di tramutarsi in cliente privilegiato da spennare con il gas liquefatto, LNG. E non basta, poiché la qualità del carbone russo è talmente alta da aver permesso a Mosca di pesare per il 25% del mercato dell’high calorific value. Quindi, se anche l’aumento dell’export di Giakarta potrebbe compensare a livello di tonnellaggio, il profilo prestazionale inferiore potrebbe imporre un utilizzo maggiore e più intensivo. Quindi, richiesta ancora più alta.
Se qualcuno ancora avesse dubbi sul dividendo bellico che Washington sta già incassando, ora può ritenersi soddisfatto. La Francia, però, ci è o ci fa in questa giostra diplomatica fra Cremlino e Casa Bianca, stante le mani legate dal gas russo di Germania e Italia?
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