Coronavirus: molte narrazioni peccano della verificabilità anche se possono essere plausibili
I virus ci insegnano sono da 3 miliardi di anni sulla Terra. Noi invece siamo una specie giovane.
L’homo erectus è vissuto 117 mila anni fa. Forse hanno avuto il tempo (i virus), in termini evolutivi, prima di regolare la partita con i batteri e poi lottare con gli organismi pluricellulari. Il virus non si riproduce da solo e non sintetizza le proteine, ma ha bisogno di una cellula ospite nella quale entrare attraverso un recettore, che è una molecola proteica.
Aggiungiamo che come individui negli ultimi tre decenni abbiamo preso l’abitudine di spostarci moltissimo e vivere in città e metropoli e questo agevola molto i virus. Inoltre la biologia moderna ha scoperto che il 10% del nostro genoma è costituito da retrovirus (virus il cui genoma è costituito da acido ribonucleico).
Abbiamo però commesso l’errore di credere onnipotente la scienza e nel contempo non ascoltare i suoi messaggi nel fare determinate scelte. Questa immagine di onnipotenza della scienza e di conseguente quasi “immortalità” dell’uomo che con la corrente del transumanesimo ha generato convinzioni di invulnerabilità è un portato del sistema di marketing.
Covid 19 e precedenti epidemie
Da anni la scienza denuncia il rischio che un agente patogeno avrebbe reso fragile l’uomo e il sistema che si era costruito nel tempo della globalizzazione. Di pandemie l’uomo ne ha conosciute parecchie. La peste antonina del 165 d.C. che sconvolse l’impero romano, l’epidemia degli Aztechi in Messico, la peste del 1300 che imperversò in Europa per 4 secoli, la sifilide nel 1400, il vaiolo nel 18° secolo.
Nel secolo scorso la spagnola, l’AIDS, Ebola, la Sars, la Mers, l’asiatica, l’aviaria: insomma la frequenza di epidemie e pandemie segna la storia umana. Di Covid 19 conosciamo il genoma. L’80% è simile a quello della Sars. Non si conosce l’ospite intermedio e al 99% deriva dal virus del pipistrello.
Intorno a questo virus sono sorte le narrazioni che possono essere alcune anche plausibili ma che per passare a ipotesi verificate necessitano di prove dirette. Un dato è certo perché suffragato da ricerche: l’alterazione della funzionalità del sistema immunitario dovuto ai campi elettromagnetici (Hardel e da 35 pubblicazioni).
Relazione con le condizioni meteo
Altra ipotesi quella riscontrata da studi dell’Università Hopkins di Baltimora, appartenente alla rete globale dei virologi (Global Virus Network) fondata da Robert Gallo che 37 anni fa isolò il virus Hiv 1.
La Hopkins ha identificato un corridoio del coronavirus segnato da condizioni meteorologiche: corridoio compreso entro la latitudine 30/50 gradi, temperatura tra 5 e 11 gradi e umidità variabile tra 47 e 79%. Sotto zero gradi il virus sembra poco virulento.
Ricerche di Università cinesi dimostrano che il basso valore di temperatura e umidità agevolano la diffusione del virus e che tra 8 e 9 gradi esso si trova in condizioni di ottimalità per la trasmissione. La pericolosità del biossido di azoto per le neoplasie polmonari è oggetto di studio e denunce sia da parte della Fondazione Veronesi che dell’Agenzia Europea dell’Ambiente.
Infine, come già scritto, il virus per replicarsi deve entrare in una cellula e “saccheggiare” DNA (trascizione inversa). Il particolato atmosferico è composto in particolare da nitrati, solfati, cloruri e fluoruri. Una trasmissibilità eventuale del virus per via aerea renderebbe a mio avviso inutile il rispetto della distanza tra persone e ritengo che tutti diventeremmo oggetto di attacco da parte del virus.
Molte narrazioni peccano della verificabilità anche se possono essere plausibili. La denuncia di una probabile pandemia, in arrivo era nel Rapporto OMS 2018. Di questo settimo coronavirus che ha ricombinato il suo materiale genetico e fatto il salto di specie conosciamo il suo genoma. Nulla sappiamo della sua evoluzione e quale stato l’ospite intermedio.
Le condizioni locali e le tradizioni congiunte alla vendita e promiscuità di animali selvaggi hanno fatto il resto. L’unica risposta è potenziare le strutture sanitarie e dare più soldi alla ricerca. Non aiutano di certo i 55 milioni dati dalla UE per la ricerca sul coronavirus. Gli USA per questo fine hanno concesso 5000 milioni di dollari. Resta scontato che teorie e ricerche, se non sono soggette a peer review e pubblicate su BiorXiv o Nature Medical restano delle eleganti ipotesi.
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