Draghi è in partenza per un tour africano finalizzato ad accordi che garantiscano approvvigionamento. Ma gli Stati interlocutori sono a loro volta dipendenti dal grano russo. Ed endemici alle rivolte
Nel giorno in cui scatta il divieto di attracco nei porti italiani per le navi russe, forse occorre fare un punto che parta da un presupposto chiaro: al netto di ogni possibile schieramento o incrostazione ideologica, sappiamo davvero cosa stiamo facendo oppure stiamo unicamente seguendo l’onda sanzionatoria in ordine sparso e senza nemmeno operare un minimo di calcolo costi/benefici fra efficacia e conseguenze?
Il governo sta infatti puntando tutte le proprie carte relative all’affrancamento della dipendenza dal gas russo sull’Africa. Prima l’Algeria, poi l’Egitto, ora il Congo. E la scelta appare decisamente strategica, visto che la settimana prossima il presidente del Consiglio sarà oltre che a Kinshasa anche in Angola e forse in Mozambico per stringere e concludere accordi di fornitura. Ora, qualche riflessione. Primo, a parte il Congo, gli altri interlocutori con cui trattiamo per il gas sono naturali alleati della Russia, sia per ragioni storiche rispetto a uno schieramento in tempi di Guerra Fredda che li vide al fianco dell’Unione Sovietica (Algeria, Angola ed Etiopia) sia per dipendenza dal grano russo per sfamare la popolazione. E, di fatto, in questo modo evitare rivolte. Le stesse due votazioni in sede Onu di condanna dell’operazione di Mosca in Crimea hanno visto la gran parte dei Paesi astenersi o votare direttamente contro, forti di un legame economico con la Federazione o di una sorta di legge del Beduino che vede Putin beneficiare dei buoni uffici garantiti falla Cina, di fatto il deus ex machina diplomatico in Africa.
Ora, questi due grafici
parlano decisamente chiaro rispetto al ruolo di game changer che le esportazioni di grano russo (e ucraino) possono giocare rispetto all’atteggiamento di molti Paesi africani nella disputa. Ma a far riflettere dovrebbe essere questa altra immagine,
poiché ad oggi l’indice dei prezzi alimentari tracciato dalla FAO ha toccato il massimo assoluto, superando anche quello del 2011 che operò da detonatore delle cosiddette Primavere arabe. E al netto delle scorte, se la Russia non esporta e l’Ucraina non produce a causa della guerra, il crollo dell’offerta mondiale di grano da qui a fine anno rischia di tramutarsi in una bomba a orologeria. Se infatti persino da noi si comincia a fare i conti con aumenti del costo del pane e della pasta e di chiari allarmi da parte dei produttori per i rischi sulla reperibilità di mercato, l’Africa non andrà incontro a malumori nei supermercati di fronte agli scaffali dei bucatini ma a vere e proprie possibili rivolte. Per fame.
Insomma, a fronte di una condizione esiziale di necessità, l’Italia affamata di gas starebbe muovendosi con apparente disinvoltura su un campo minato. Perché per quanto Mario Draghi possa far valere il proprio profilo internazionale per chiudere i migliori e più rapidi contratti possibili, resta il fatto che i deals che andiamo a negoziare - se si trattasse di obbligazioni sovrane - comporterebbero un premio di rischio altissimo. E, quasi certamente, la contemporanea copertura di rischio tramite credit default swaps. Qui però non si può giocare con i derivati, qui occorre ottenere fisicamente il gas che serve per le aziende e le famiglie.
E occorre farlo in tempi record, poiché se dopo il voto francese di domenica prossima l’Ue darà davvero vita al sesto pacchetto di sanzioni che includerà anche il petrolio, il gas sconterà comunque un’immediata prezzatura al rialzo, venendo percepito come il prossimo nella fila. Questo senza scordare come la Russia possa, da un giorno con l’altro, bloccare i flussi dei contratti ancora in essere. facendosi forte della sua richiesta di pagamento in rubli e del fattore tempo: se infatti per dirimere la controversia contrattuale sulla valuta di quei contratti ci vorranno mesi e mesi, la resistenza europea - a livello di scorte - pare già oggi limitata all’estate.
Tradotto, il rischio di una recessione senza precedenti per crollo delle crescita economica da blocco delle produzioni e razionamenti energetici. Il tutto in un contesto di inflazione al 7% e destinata a rimanere ben oltre la quota obiettivo della Bce per almeno tutto il 2022. Tradotto e sintetizzato, stagflazione garantita. Davvero, quindi, la strategia italiana di puntare sull’Africa pare designata su un calcolo razionale e scientifico e non piuttosto dettata dalla disperazione da mancanza di alternative reali? Se questa seconda ipotesi è quella reale, il governo con la sua intransigenza bellicista non sta giocando a dadi con il futuro dell’economia del Paese? Ma, soprattutto, la domanda delle domande: al netto dell’entusiasmo del momento, dove è andata a finire tutta la certezza liberatoria che salutò l’annuncio di Joe Biden al Consiglio Ue rispetto all’aumento delle forniture di LNG statunitense per rendere il più rapido e indolore possibile l’affrancamento europeo dal gas del nemico?
Non un quesito da poco, per due ordini di ragioni. Primo a livello pratico e operativo, poiché il gas serve subito e a un prezzo accettabile, mentre quello Usa è più caro, impone tempi e costi logistici e la possibilità di rigassificare su grandi quantitativi. Secondo, a livello politico e di Alleanza. Parlando di sanzioni, già oggi l’Ue sta compiendo tutto il lavoro sporco, al netto di un’America che ha bandito solo diamanti e vodka e prima di bloccare l’import di petrolio ha fatto il pieno del greggio pesante degli Urali a prezzo di sconto per il proprio fracking: che tipo di partnership strategica è quella che vede uno dei due contraenti beneficiare e l’altro pagare il conto?
Attenzione quindi a farsi risucchiare in una spirale unilateralmente e intransigentemente bellicista, perché oltre al rischio sugli approvvigionamenti energetici, più reale e urgente che mai, da ieri la Russia ha cominciato a colpire in maniera diretta i rifornimenti di armi occidentali a Kiev. L’ingresso nella fase della potenziale operational miscalculation potrebbe quindi essere iniziato. E da quel cul-de-sac, geograficamente innocuo per gli Usa, non è contemplato un ritorno indolore.
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