Tutti i nodi da sciogliere sul tema del Green New Deal della nuova Commissione Europea.
Finalmente il tanto decantato Green New Deal della nuova Commissione Europea comincia a prender corpo.
La Commissione, infatti, ha presentato martedì 14 gennaio l’atteso progetto di Fondo per una transizione equa che dovrebbe contribuire a facilitare tra il 2021 e il 2027 il percorso verso la neutralità climatica entro il 2050. Il pacchetto da 100 miliardi di euro è uno dei tasselli di una rivoluzione che si vuole economica, oltre che ambientale.
A beneficiare del pacchetto saranno in modo particolare i paesi dell’est Europa. E proprio qui nascerebbero i primi dubbi sulle reale efficacia e portata del pacchetto.
I dubbi sull’efficacia del Green New Deal
I paesi dell’est europeo, con in testa la Polonia, sono infatti i maggiori utilizzatori di carboni fossili, sopratutto carbone, e il fatto che la maggior parte dei fondi sarebbero stanziati proprio a loro lascia adito a molti dubbi e perplessità fra i paesi più ricchi, come Francia Italia e Germania.
Ruolo cruciale avrà il Just Transition Fund (in italiano, Fondo per una transizione equa). Quest’ultimo sarà dotato di denaro fresco per 7,5 miliardi di euro che, grazie al cofinanziamento nazionale, al braccio finanziario InvestEu e alla Banca europea degli investimenti porterà il totale a 100 miliardi di euro.
Secondo le prime stime, per fare un esempio, il nostro paese sarebbe destinatario di circa 400 milioni di euro, una cifra tutto sommato modesta se rapportato all’importo totale e alle misure che dovranno essere adottate.
La distribuzione del denaro tra i paesi membri, infatti, si baserà su alcuni criteri: tra questi, la presenza di emissioni nocive, l’occupazione nei settori del carbone e della lignite, la produzione di torba o di scisti bituminosi.
Ecco allora che proprio i paesi più inquinanti come la Polonia, che non a caso si è astenuta sul provvedimento (temendo altissimi costi di ristrutturazione), sarebbero di gran lunga tra i maggiori beneficiari dei fondi europei.
I nodi da sciogliere per l’Italia
Ma il problema che resta ancora sul tavolo e che non è stato ancora affrontato riguarda, come giustamente fatto notare dal capo delegazione di Fratelli di Italia, Carlo Fidanza, il nodo dello scorporo degli investimenti pubblici “verdi” dal calcolo del deficit.
Su questo, come detto, malgrado le rassicurazioni del ministro Gualtieri e del commissario Gentiloni, la questione è ancora tutta aperta e nulla è stato ancora deciso ma le prime avvisaglie non inducono ad essere troppo ottimisti.
“Senza un fondo per la prevenzione del rischio idrogeologico e lo scorporo degli investimenti verdi dal calcolo del deficit pubblico si rischia che il Green Deal si traduca in maggiori costi diretti ed indiretti per le imprese, lasciandole in balia della concorrenza sleale asiatica”, sottolinea in un comunicato il gruppo di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo.
Ed in effetti se da un lato è sicuramente apprezzabile questo tentativo dell’Europa di agire in maniera decisa sulla delicata materia ambientale, si corre il rischio di ottenere un ulteriore carico per le imprese a favore appunto di quelle asiatiche e statunitensi che invece possono godere di leggi e regole molto meno limitanti in materia di inquinamento.
Il problema, infatti, è che - come dimostrato alla ultima fallimentare assise di Madrid sul clima, Stati Uniti e Cina, che sono di gran lunga i maggiori inquinatori al mondo - queste hanno dimostrato di non voler rinunciare alla crescita delle loro aziende a scapito di una maggiore attenzione al clima.
Europa sempre meno determinante
E l’Europa ha purtroppo mostrato per l’ennesima volta che il suo peso specifico a livello globale è sempre meno determinante. Ecco allora che per una volta che l’Europa prende spontaneamente una presa di posizione importante per provare ad essere una sorta di motore propulsivo del mondo, si rischia di creare l’ennesimo pastrocchio che non raggiunge il suo scopo primario, ma anzi rischia di rivelarsi controproducente per i suoi paesi membri.
L’obiettivo dichiarato dalla Commissione, infatti, sarebbe quello di diventare il leader globale di una nuova economia verde a cui inevitabilmente il resto del mondo dovrà adeguarsi. Ma per ottemperare agli ambiziosi obiettivi stabiliti dal piano, occorrerebbe da qui al 2050 uno sforzo immane, soprattutto dal punto di vista finanziario, che non può non far leva sui vincoli di bilancio degli Stati, che da tempo devono sottostare al controllo serrato della Commissione su parametri assai stringenti.
Le imprese non possono chiaramente sobbarcarsi totalmente un ulteriore costo sui loro bilanci gia da tempo messi in difficoilta dalla crisi economica, senza che si agisca sui vincoli di bilancio statali che tanto hanno nuociuto in questi anni. La prospettiva che si apre per il continente europeo è importante e forse unica, ma chiaramente essa deve essere supportata dalle autorità europee senza se e senza ma.
Dopo anni di austerità la prospettiva che si possa creare grazie agli investimenti green un volano crescita, di occupazione e di recupero di aree industriali in difficoltà (come nel caso dell’Ilva di Taranto) è assai incoraggiante, ma occorre che queste intenzioni siano supportate da fatti concreti e reali. Essere leader si dimostra con i fatti non con le parole. E in questi ultimi dieci anni di parole senza costrutto all’interno della comunità europea ne sono state spese a fiumi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA