Il lavoro nei call center è davvero sottopagato?

Dimitri Stagnitto

15/01/2014

Il lavoro di call center outbound è sottopagato o più semplicemente una posizione di lavoro per sua natura poco efficiente? Ad uno sguardo più attento può essere una vista privilegiata su un mondo che cambia, in peggio.

Il lavoro nei call center è davvero sottopagato?

Nell’Italia del lavoro precario e della disoccupazione giovanile da record c’è una professione che più di tutte rappresenta e raccoglie il risentimento e la disapprovazione sociale: l’operatore di call center outbound.

Chi è l’operatore di call center outbound

Ogni possessore di un telefono fisso o cellulare è stato chiamato almeno una volta (diciamo pure decine di volte) da un ragazzo o una ragazza che propongono il cambio di operatore telefonico, il cambio di fornitore di gas e luce o l’acquisto di un pacchetto della pay TV: spesso si declina l’offerta con garbo, a volte in modo sgarbato, molto raramente la telefonata diventa l’inizio di un nuovo contratto per il cliente e l’azienda committente.

L’operatore di call center outbound ha l’incarico di chiamare ogni giorno centinaia di numeri presenti in un database che gli viene fornito in cambio di un compenso fisso che quando presente è molto basso unito a delle provvigioni su ogni contratto concluso.

Quanto guadagna un’operatore di call center?

E’ noto che i compensi per questo lavoro siano molto bassi e questo è assolutamente vero se si fa la media dei compensi percepiti da chi fa questo lavoro. In realtà, come per ogni lavoro basato su provvigioni (per quanto questo sia particolarmente odioso), è in realtà potenzialmente possibile guadagnare molto a patto di riuscire a concludere molti contratti. E’ una questione di abilità e competenza.

Proprio qui sta il paradosso di questa «professione»: si tratta in realtà di un compito molto specialistico che richiede una forte attitudine, capacità ed esperienza ma che viene nella maggior parte dei casi proposto a giovani poco inclini a questo tipo di lavoro e decisamente poco motivati che accettano questi incarichi per pura «mancanza di alternative».

Non riescono a trovare nient’altro e si «rassegnano» a lavorare al call center: è chiaro che su questi presupposti difficilmente si può progredire e diventare buoni professionisti del call center outbound in grado di guadagnare buone cifre.

Un sistema basato sui grandi numeri

L’intero sistema delle professioni di questo tipo trova le sue radici in un numero che diventa sempre più grande: la disoccupazione, specialmente giovanile.

Grazie a una disoccupazione da record e a una cronica mancanza di offerte di lavoro più «tradizionali» le imprese si ritrovano in un contesto del mercato del lavoro che rende possibili sistemi come quello del call center per come è conosciuto.

Grazie alla continua disponibilità di disoccupati disposti a «provare» questo lavoro le imprese possono provare a loro volta migliaia di persone per queste attività senza grandi investimenti in selezione e formazione: la gran parte degli operatori si selezionerà da sé dopo un breve periodo in cui si sperimenterà di non riuscire a chiudere molti contratti e si deciderà ad abbandonare il lavoro.

Il lavoro di call center outbound è poi molto frustrante poiché si gioca a sua volta sui grandi numeri: servono centinaia di telefonate per concludere un contratto e non è facile resistere a giorni consecutivi di cornette riattaccate in faccia e rimanere poi lucidi e proattivi quando risponde il potenziale cliente «buono».

Il bravo operatore call center matura proprio questa abilità: considerare un contratto chiuso su 100 telefonate anziché su 150 un successo anziché un compito estremamente frustrante, ed avere voglia di lavorare nelle settimane successive per passare a 1 contratto su 99 chiamate: roba per pochi.

A chi conviene un sistema del genere?

Nel medio periodo e a livello globale come Nazione, come stiamo sperimentando, non conviene a nessuno: creare grosse sacche di disoccupazione e precarietà su cui si basa l’applicabilità di un sistema simile rende sempre più povere e propense al risparmio le famiglie che sono poi i clienti a cui le stesse aziende che utilizzano i lavoratori in questo modo vendono i prodotti e i servizi.

E’ chiaro che ne venderanno sempre meno. Nel frattempo, durante il processo di precarizzazione e impoverimento (ciò che abbiamo vissuto come Paese negli ultimi 20 anni), il sistema può essere conveniente per le imprese che lo adottano che riescono a ricavare buoni risultati trimestrali e a chiudere con bilanci in crescita per qualche anno al prezzo di «ammazzare» economicamente i futuri clienti che banalmente finiranno per non avere i soldi per permettersi i servizi che l’azienda vende.

Di chi è la colpa di tutto questo?

Paradossalmente le stesse aziende si trovano «in trappola» in un processo del genere proprio come i lavoratori e i disoccupati: come abbiamo già visto utilizzare questi modelli di business è tanto più conveniente quanto più presto lo si inizia a fare (andamento tipico delle bolle speculative, peraltro).

Il problema per ogni azienda nasce quando l’azienda concorrente, avendo la possibilità di utilizzare queste pratiche, inizia a farlo: a quel punto non rispondere con la stessa mossa significherebbe perdere quote di mercato e avviarsi al fallimento, così nessuna azienda può permettersi di non abbassare i livelli di retribuzione e di tutela dei lavoratori semplicemente per non sparire dal mercato.

Le aziende, quindi, sono tanto colpevoli quanto i lavoratori: tutto ciò che si può loro addebitare è il non aver trovato in molti casi forme di superamento della concorrenza diverse (cosa spesso effettivamente impossibile) o di aver tirato in certi casi la corda più del necessario per ottenere un vantaggio competitivo immediato (e di breve durata dato che poi tutti i competitor inseguono sullo stesso piano).

Nel secondo caso si può parlare di avidità e di scarsa lungimiranza ma, essendo obiettivi, stiamo parlando di persone e la gran parte dei lavoratori sono a loro volta avidi e scarsamente lungimiranti quando si tratta di abbandonare l’azienda in cui sono cresciuti e grazie a cui hanno vissuto per anni a favore di «nuove e migliori» opportunità lavorative.

Le colpe sono da ricercarsi a un livello superiore e i maggiori indiziati sono due: il livello politico o il livello dell’evoluzione sociale.

A livello politico (c’è da sottolineare a tal riguardo che il processo non riguarda solo l’Italia ma è piuttosto globale, viene infatti chiamato globalizzazione) le colpe da addebitare sono quelle dell’aver ceduto alle argomentazioni dal lato del business (che per sua natura guarda ai risultati immediati dato che del futuro non c’è certezza) contro quelle dei cittadini e dei lavoratori che per decenni nel dopoguerra erano riusciti ad ottenere maggiori diritti a livello civile ed economico.

A un livello ancora superiore c’è da capire se anche questa deriva della politica nella Storia fosse o meno evitabile e qui si andrebbe davvero sul filosofico ponendosi domande a cui non si può dare una risposta certa come «viviamo nel migliore dei mondi possibili?»

Mentre cerchiamo di rispondere alla domanda è compito di ciascuno cercare di vivere al meglio nel suo tempo prendendo come date e non negoziabili le condizioni in cui si trova a vivere, studiare, lavorare.

In un mondo in decadenza non mancano comunque le possibilità per ricavarsi una vita onesta ed appagante, ciò che cambia sono le condizioni della popolazione in generale. Per il singolo diventa tutto più difficile, ma non impossibile.

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