L’Italia è un paese fragile segnato da dissesto idrogeologico con alluvioni, frane, smottamenti ed erosione costiera. Il cambiamento climatico determina lo sconvolgimento del territorio.
Un susseguirsi di eventi estremi quali bombe d’acqua, esondazioni di fiumi, grandinate che compromettono i raccolti, venti violenti che provocano la caduta di alberi. Un’Italia pestata a sangue dagli effetti della crisi climatica, ma anche e soprattutto dalla scelta politica del non fare intervenendo, in maniera gerarchizzata sulle emergenze, bilanciando costi e benefici sociali, ambientali ed economici.
Rapporti annuali di Ispra, quinquennali di IPCC, ricerche e articoli scientifici pubblicati su Science, Nature nulla riescono a smuovere. Un climatologo autorevole come Antonello Pasini da anni spiega che gli eventi estremi sopra richiamati provengono dall’anticiclone africano che quando risale impedisce all’anticiclone delle Azzorre di difenderci come normalmente fa. Entrano le correnti fredde da Nord e gli eventi estremi diventano frequenti. Una condizione cui dovremo abituarci, ma attrezzandoci preparando le difese.
L’Italia è un paese fragile segnato da dissesto idrogeologico con alluvioni, frane, smottamenti ed erosione costiera. Il cambiamento climatico che tende alla tropicalizzazione in un territorio segnato da sfruttamento del suolo, abusivismo e infrastrutture inadeguate rispetto alle necessità di un paese moderno determina lo sconvolgimento del territorio.
La necessità della prevenzione, agendo sulla vulnerabilità del territorio cozza con la marginalizzazione del combinato disposto consumo di suolo, abusivismo edilizio. L’indifferenza della politica per la difesa e la tutela del patrimonio naturale hanno determinato, per esempio, l’abbandono dei territori montani e collinari che, privati della presenza dell’uomo, si sono molto indeboliti e diventati ancor più oggetto degli eventi del dissesto idrogeologico.
Il 91,1% dei comuni italiani sorge in un’area in cui il rischio di dissesto idrogeologico è notevole. La superficie delle aree classificate a pericolosità da frana medio-alta e/o idraulica di media intensità ammonta complessivamente a 50.117 chilometri quadrati, ed è pari al 16,6% del territorio nazionale.
Si tratta di zone in cui, a seguito di precipitazioni molto abbondanti, possono verificarsi frane o alluvioni, anche di ampie dimensioni. A dirlo sono i dati nel rapporto Ispra sul dissesto idrogeologico. S’ignora irresponsabilmente che l’Italia è tra i paesi maggiormente interessati da fenomeni franosi in Europa. Un’area a pericolosità da frana alta, media, moderata e di attenzione pari al 19,9% del territorio nazionale (59.981 chilometri quadrati). Per quanto riguarda, invece, le alluvioni, la superficie interessata con più frequenza ammonta a 12.405 chilometri quadrati (4,1% del territorio nazionale), mentre le aree a pericolosità media raggiungono i 25.398 chilometri quadrati (8,4%). Dal punto di vista del rischio 7 milioni di persone risiedono in territori vulnerabili, stima fatta su dati demografici di 9 anni fa.
Il primo rapporto ISPRA sul dissesto idrogeologico è stato pubblicato nel 2015, e già aveva sottolineato quali fossero le zone e i rischi per il nostro Paese.
E nemmeno prima si viveva nell’ignoranza: si calcola che dal 1944 al 2012 i danni per dissesto idrogeologico sono costati più di 61 miliardi di euro. Il Veneto può essere assunto come paradigma dell’irresponsabilità della politica sul versante della “tutela del territorio". Appena due mesi fa fenomeni intensi come forti piogge e grandinate hanno colpito il Nord-Est provocando danni al territorio. Eventi meteorologici estremi che negli ultimi anni sono diventati sempre più frequenti. Basti pensare, solo per fare un paio di esempi noti, alla straordinaria acqua alta a Venezia nell’autunno del 2019, la seconda marea più alta della storia (187 centimetri), sostenuta da raffiche di vento che hanno superato i 100 km/h. O, ancora, all’uragano Vaia nell’ottobre del 2018 con venti che hanno superato i 200 km/h e si sono abbattuti sui versanti e nelle valli del nord Italia, colpendo 494 municipalità tra Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e, in modo più marginale, Valle d’Aosta e Piemonte. Il Presidente del Veneto è velocissimo a dichiarare lo stato di emergenza, ma i dati di Ispra raccontano una storia diversa per interpretare gli effetti prodotti dagli eventi estremi. Il Veneto secondo il Rapporto di Ispra detiene il primato della cementificazione al 12,21% del proprio territorio. La media italiana di consumo di suolo è del 7,6% ed europea del 4,5%. Un ettaro non cementificato trattiene fino a 3,8 milioni di litri d’acqua.
Sempre da Ispra si apprende che la capacità del suolo di immagazzinare acqua del Veneto è diminuita dal 2012 al 2015 di 2,4 miliardi di litri, che volendole trasportare richiederebbero più di 90 mila Tir. Sulle percentuali di suolo consumato 240 comuni veneti, su 540 sono sopra il 15% di suolo consumato e, fra questi, ben 23 comuni sono oltre il 30% (Padova 49,2%, Treviso 39,7, Venezia 45,1, Vicenza 31,8, Noventa Padovana 43,9%, Spinea 42,8%).
Se analizziamo i dati della Regione (fonte: allegato B Delibera di Giunta in applicazione della Legge regionale. 14 del 6 giugno 2017) lo scenario è ancora più preoccupante. La superficie urbanizzata è pari a 259.064 ettari, il 14,06% del territorio regionale (dato Ispra 12,2 %). Questi sono dati che dovrebbero indurre a interventi immediati e fa irritare l’incompleta attuazione del Piano del Prof. D’Alpaos per la messa in sicurezza idraulica del territorio veneto. Cementificazione spinta, infrastrutture ad altissimo impatto, legge sul consumo dei suoli di fatto operativa tra tre decenni e piena di deroghe, in un territorio super cementificato e fragile non può che diventare dramma e rischio di tragedia nel tempo dei cambiamenti climatici.
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