Mentre gli Usa risolvono il problema inflazione cambiando da gennaio il metodo di calcolo, Madrid occulta i disoccupati con assunzioni di massa nel pubblico. Ma la realtà è altra. E Atene lo insegna
Viviamo in un mondo in cui la realtà ha ormai superato la fantasia. E di parecchio. Il dato dell’inflazione statunitense al 6,8% su base annua ha riportato le lancette degli americani indietro al 1982. Trentanove anni. Tanto per mettere la questione in prospettiva, l’età media negli Usa oggi è di 38 anni.
Quindi, il cittadino statunitense medio sta vivendo tempi senza precedenti a livello di dinamiche dei prezzi. Questi due grafici
fanno decisamente al caso nostro: il primo ci mostra come all’epoca, i tassi Fed Funds fossero all’11,5%, la hit del momento fosse Eye of the tiger dei Survivor, un fiammante televisore Sony a 19 pollici costasse qualcosa come 499 dollari, la benzina 0,91 dollari al gallone e il prezzo medio di un immobile arrivasse a 67.800 dollari. Il secondo grafico mostra invece la reazione del rendimento del Treasury a 10 anni alla notizia del dato CPI: un tonfo al ribasso in area 1,48%, un sospirone di sollievo per non aver sfondato la quota psicologica del 7%.
E in effetti, forse c’è da festeggiare. Subito dopo la pubblicazione, infatti, Joe Biden ha dichiarato che gli sviluppi occorsi nelle settimane seguite al tracciamento di questi dati il mese scorso ci dicono già che i prezzi sono in rallentamento, seppur più lento di quanto vorremmo. Insomma, il Presidente Usa si gioca la carta del picco raggiunto senza utilizzo del condizionale: è certo che ora arriverà il raffreddamento. Come fa? Semplice, lo mostra la schermata apparsa sul sito del Bureau of Labor Statistics:
a partire da gennaio, le ponderazioni per il CPI verranno calcolato in base ai dati di spesa per consumi del biennio 2019-2020. L’inflazione è troppo alta? Macché normalizzare i tassi, si vende al pubblico la balla di un taper del QE più rapido - ma comunque a fronte di un bilancio Fed che resterà da record assoluto almeno fino ad aprile 2022, a prescindere dal controvalore del taglio - e soprattutto si cambia in corsa la metodologia di calcolo.
Insomma, il gioco delle tre carte. Come nelle stazioni ferroviarie o nei piazzali degli autogrill. E attenzione, perché questa pratica è decisamente diffusa. E molto più vicina e prossima a noi di quanto l’esempio transatlantico possa farci pensare. Non più tardi del 2 dicembre scorso, infatti, la Spagna ha sorpreso tutti comunicando un calo record della disoccupazione nel mese di novembre, un -2,28% su base mensile che equivale a 74.381 unità dopo una variazione a ottobre di -700 unità. Di più, su base annua il calo è stato del 17,36% e in numeri totali i disoccupati spagnoli sono scesi a 3.182.687 persone, il livello più basso dal novembre 2008. Roba da far invidia e capace di porre Madrid in diretta concorrenza con Roma rispetto al rimbalzo dei dati macro dallo sprofondo del 2020.
Eppure i dati Ocse, contestati dal governo spagnolo, parlano un’altra lingua, come mostra questo grafico:
con un tasso di occupazione che cresce a un ritmo del 4% dopo il tracollo sanguinoso del 2020, il Pil iberico viaggia a circa il +4,5% dopo il -10,8% dell’anno scorso. Ma a far davvero paura è questo altro grafico,
contenuto nello studio di Eurostat: a livello di perdita di valore aggiunto fra il terzo trimestre di quest’anno e il quarto del 2019, la Spagna è ancora in pieno sprofondo. Con la voce dei servizi più colpiti dal Covid (area rossa) - leggi turismo, ristorazione e strutture ricettive e ricreative - addirittura da incubo.
Cosa giustifica allora quel dato record? Il fatto che fra il novembre 2019 e il novembre di quest’anno la Spagna ha assunto nel settore pubblico 218.000 persone, mentre nel medesimo arco temporale quello privato perdeva 68.113 addetti, stando a dati ufficiali del ministero del Lavoro. Quindi, la realtà occupazionale iberica nello scorso mese di novembre, quello dei record, vedeva i dipendenti nel settore privato in calo di circa 70.000 unità rispetto ai due anni precedenti, senza contare i 125.000 ancora in regime di ERTE (Expediente de Regulación Temporal de Empleo, la cassa integrazione) e i 134.000 autonomi che hanno cessato la loro attività, sempre rispetto al medesimo periodo del 2019.
Ma non basta. le ore lavorate nel terzo trimestre di quest’anno sono scese del 10% rispetto a quello precedente e del 2,6% rispetto al corrispettivo del 2019. Infine, degli oltre 2 milioni di contratti stipulati lo scorso mese di novembre, l’86% è a tempo determinato. Insomma, un bel trucchetto. Esattamente come quello che gli Usa paiono intenzionati a porre in essere con il calcolo dell’inflazione.
La conclusione? Nessun Paese con il 14,5% di disoccupazione (stante 523.000 senza lavoro che non compaiono nelle statistiche ufficiali fra lavoratori senza occupazione in smart working e cosiddetti DENOS), il più ampio deficit strutturale di tutta l’Unione Europa e una ratio debito/Pil salita a oltre il 120% a causa della pandemia può permettersi di risolvere la questione occupazionale con arruolamenti di massa nella pubblica amministrazione, spacciandoli per efficientamento del sistema. E’ la Grecia a confermare quale sia il destino che spetta a simili esperimenti. Chissà se il ministro Brunetta è conscio di tutto ciò?
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