I dati storici sono viziati, incertezza e volatilità confondono gli istituti di statistica. Aziende e governi sono alla disperata ricerca di sicurezza nel tentativo di capire quale sarà il futuro dell’economia mondiale.
La recessione sembra ormai inevitabile. A seguito della crisi del comparto bancario, è questo il destino dell’economia mondiale nel 2023 secondo la maggior parte degli analisti.
Oggi. Perché solo qualche settimana fa l’opinione più in voga tra esperti e media vedeva il futuro del’economia al sicuro nonostante l’aumento dei tassi di interesse, una view che a sua volta aveva soppiantato il consensus sul finire dello scorso anno che prevedeva l’avvento di una forma lieve di recessione.
E allora c’è un problema. Fare delle previsioni oggi sull’economia mondiale è diventato estremamente difficile. Basta cambiare prospettiva, spostarsi di un passo, e tutto sembra diverso. Proprio come accade quando osserviamo la Mona Lisa, un paragone a dir poco azzeccato che leggiamo su The Economist.
Per quante volte si possa guadare il capolavoro di Leonardo Da Vinci, infatti, non riusciamo a definire se la donna stia sorridendo o meno. Per quanti indicatori e studi su dati storici possiamo fare, non riusciamo a definire il destino dell’economia nell’era post-pandemica.
Ma possiamo davvero fermarci qui, rinunciare ad indagare le dinamiche economiche in balia di una tempesta di dati e statistiche inconsistenti e discordanti?
Alla ricerca del destino dell’economia mondiale
Raramente in passato elaborare delle previsioni economiche è stato così difficile. Regnano incertezza e confusione. Non è una speculazione. Sono i diretti protagonisti del grande spettacolo economico ad ammetterlo.
In occasione dell’ultima riunione della BCE, il suo presidente Christine Lagarde ha specificato che «non è possibile determinare in questo momento quale sarà il percorso da seguire». Il mercato non è riuscito a trovare un’intesa su cosa aspettarsi dalla riunione della Federal Reserve, banca centrale statunitense, distante poche settimane dai noti crack bancari USA. Il Fondo Monetario Internazionale, all’interno del suo ultimo outlook pubblicato, la parola «uncertainty» (incertezza, in italiano), appare oltre 60 volte, il doppio rispetto alle versioni di aprile e ottobre 2022.
Nulla apparentemente è cambiato, ma tutto è cambiato. Nonostante i dati macroeconomici principali continuino ad essere gli stessi di sempre - PIL, inflazione e occupazione primi su tutti -, e gli istituti di statistica nazionali e sovranazionali continuino a fare il loro lavoro aggiornando i dati mese dopo mese, non vi è alcuna linea chiara da seguire e interpretare.
Come ricorda The Economist, il numero di revisioni del PIL dell’Eurozona è quattro volte al di sopra della media storica; in Australia a marzo l’istituto di statistica nazionale ha dimezzato le sue previsioni sulla produttività relative al terzo trimestre dello scorso anno; nel Regno Unito avevano previsto degli investimenti reali delle imprese in calo dell’8%, per poi ritrattare mesi dopo e affermare che si è agli stessi livelli apprezzati nell’era pre-pandemica.
Perché non riusciamo più a prevedere il futuro dell’economia?
Tale incertezza che sta caratterizzando il mondo statistico, con una conseguente impossibilità previsionale, si spiega attraverso tre motivi principali:
1) Stagionalità viziata
La volatilità che ha impattato sull’economia mondiale è figlia non solo della guerra tra Russia e Ucraina e del conseguente impatto nelle catene di produzione, della crisi energetica e delle difficoltà del settore bancario. Ma anche della discontinuità che ha caratterizzato gli ultimi tre anni, alterando stagionalità e serie storiche dei dati.
Se nel 2020 si sono registrati crolli monstre a livello macroeconomico, le successive riaperture, nuovi lockdown, ripartenze a singhiozzo e via dicendo hanno fatto registrare picchi di ripresa economica difficilmente armonizzabili e aggiustabili a livello stagionale.
2) Hard vs. Soft
Come sottolinea ancora il noto giornale, vi è una disparità tra dati «hard» e «soft», ovvero tra i dati principali che meglio restituiscono l’andamento di un’economia (ad esempio, la disoccupazione) e quelli maggiormente soggettivi (ad esempio, le aspettative delle persone intervistate, come nel caso degli indici PMI manifatturiero e dei servizi, che restituiscono un punteggio in base alle opinioni di un panel di manager responsabili degli acquisti).
In un contesto normale, o per meglio dire «storico», i dati soft e hard si sono sempre mossi in armonia, nella stessa direzione. Oggi, invece, sono molto distanti tra di loro. Le metriche soft parlano di recessione, le metriche hard mostrano una crescita. Tale disparità, almeno in parte, può essere spiegata con la frustrazione dei manager e della popolazione tutta in merito all’inflazione - in Occidente i prezzi stanno ancora salendo del 9% rispetto allo scorso anno.
3) Campioni statistici
Le persone non vogliono più rispondere ai sondaggi ufficiali utili alla raccolta dei dati, una tendenza che è andata ad esacerbarsi nel post-pandemia. Negli Stati Uniti il tasso di risposta delle imprese contattate per stabilire il numero di posti di lavoro vacanti all’interno del Paese è passato dal 60% pre-pandemia a circa il 30%. Stesso problema nel Regno Unito: il tasso di riposta ai sondaggi finalizzati a fotografare l’andamento del mercato del lavoro inglese è dimezzato rispetto al 2019.
Le motivazioni di tale dinamica vanno da una maggiore sfiducia nei confronti di governi e istituzioni alla chiusura di molte imprese in occasione del lockdown, che ha ridisegnato poi il modo di lavorare e probabilmente ha fatto perdere l’abitudine alla compilazione dei questionari.
Una minore partecipazione ai sondaggi porta inevitabilmente ad un’impennata della volatilità e una maggiore esposizione ai bias.
Le distorsioni statistiche sono destinate a scemare man mano che gli effetti della pandemia si fanno meno apprezzabili, come anche ci si attende che scendano, nel lungo termine, sia la volatilità che l’inflazione, tutte dinamiche che renderanno decisamente più attendibili i dati.
Una magra consolazione per tutte quelle aziende - come i governi - che sulle proiezioni economiche basano il proprio lavoro, e il proprio futuro.
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