Politicamente corretto: cosa significa?

Chiara Esposito

21 Settembre 2021 - 23:28

Politicamente corretto: le origini e l’evoluzione di un approccio culturale al tema dell’inclusione che continua a far discutere.

Politicamente corretto: cosa significa?

Perché si parla così tanto di politicamente corretto? Viviamo veramente in un’era in cui non è più possibile dire niente o dietro questa espressione si nascondono meccanismi ben lontani dall’autoritarismo dei cosiddetti buonisti?

Per rispondere a queste domande bisogna innanzitutto capire di cosa si parla quando si usa il termine “politicamente corretto” e come nasce quest’approccio culturale al mondo e alla diversità.

Solo guardando alle origini di questa corrente sociale volta a proteggere i più deboli dai più forti si può arrivare a capire come mai oggi quello stesso ideale si è rivelato essere anche una trappola che sempre più spesso ci impedisce di rapportarci all’altro.

Dietro tutto questo c’è infatti la storia di una strumentalizzazione del termine fatta dai media e dalla politica americana che ancora oggi inquina il dibattito pubblico.

Politicamente corretto: la definizione del termine

Il termine appare per la prima volta nel vocabolario marxista-leninista dopo la rivoluzione russa nel 1917 ma è solo qualche decennio dopo che si inizia a parlare di politically correct come di una vera e propria ideologia.

L’espressione sembra avere una discendenza angloamericana e disegna di fatto un orientamento culturale di estremo rispetto verso tutti, grazie al quale si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone che rappresentano minoranze etniche e religiose, gruppi vessati da pregiudizi di genere e legati all’orientamento sessuale, ma anche i soggetti discriminati sulla base della loro condizione psico-fisica ritenuta non conforme alla media della popolazione.

Secondo tale approccio, le opinioni espresse devono apparire neutre e il linguaggio impiegato dei dibattiti deve essere esente nella forma linguistica e nella sostanza da termini offensivi e luoghi comuni.

Le origini del politicamente corretto

Le vere origini del politicamente corretto vanno ricercate in America all’inizio degli anni’80 quando le prime persone non bianche ebbero accesso alle grandi università del paese e si diffusero anche i primi movimenti LGBT.

L’arrivo di studenti asiatici e afroamericani di fatto portò a una riforma dei programmi accademici con l’introduzione dei cultural e dei gender studies.

Si inizia quindi a riflettere sul fatto che, per includere le persone che di solito venivano estromesse dagli ambienti intellettuali, non bisognasse solo farle entrare nei campus, ma anche riservare loro un’attenzione diversa dal punto di vista tematico e linguistico.

Ciò comportava il riconoscimento del multiculturalismo e la riduzione di alcune espressioni discriminatorie ed offensive nei confronti delle minoranze.

Esempi importanti sono stati l’introduzione di nuove parole quali:

  • afroamericans che sostituì blacks, niggers e negros;
  • gay che sostituì sodomite e faggot.

La sensibilità verso il tema crebbe e si sparse in altre nazioni del mondo. Nella società italiana, ad esempio, si è iniziato a parlare di questioni legate all’abilismo con il termine disabile che sostituì espressioni offensive come minorato o handicappato.

L’obiettivo del movimento

I sostenitori di questa linea ideologica erano alla ricerca della tolleranza e dell’apertura progressista alla diversità e la raggiunsero evidenziando la necessità delle minoranze di assumere un ruolo politico attivo. Si cercò quindi di veicolare i valori dell’inclusività a partire dal linguaggio.

La convinzione di fondo di questo meccanismo originario era legata al peso e al valore delle parole nella prospettiva in cui queste ultime, con la loro forza intrinseca, sono in grado di plasmare il pensiero collettivo.

In quest’ottica, con il tempo, diventiamo ciò che diciamo perché lo sforzo mentale d’introiettare nelle nostre abitudini vedute differenti da quelle proprie della nostra posizione di privilegio ci pone nella condizione di sviluppare maggior empatia.

La strumentalizzazione dei conservatori

Il risentimento della classe politica conservatrice verso questo atteggiamento non tardò a farsi sentire e la destra americana rispose sin da subito in modo ostile.

Nel 1990 sul New York Times fu ha pubblicato un articolo di Richard Bernstein che altro non era se non un reportage condotto all’interno del mondo universitario in cui stavano cambiando le cose. L’autore, fotografando il cambiamento in atto, metteva in guarda i lettori da una presunta spinta al conformismo o meglio, da uno scenario in cui non si era più liberi di portare avanti ideologie conservatrici se non si voleva essere considerati dei retrogradi.

Da questo articolo ebbe inizio una reazione a catena da parte della stampa con innumerevoli articoli a sostegno di questa tesi che contribuirono a creare un frame narrativo in cui i nuovi oppressi sarebbero stati i precedenti oppressori.

Il timore di essere spodestati dalla propria posizione di autorità era troppo grande e ci si iniziò a difendere parlando di dittatura del politicamente corretto come di un regime in cui le minoranze mettono all’angolo chi non le legittima e riconosce.

Il senso di minaccia avvertito dai conservatori non è però che una spia importante sulla realtà dei fatti: le vere dittature sono condotte dalle maggioranza o meglio da chi detiene il potere e non da chi sta cercando di veder riconosciuta la propria dignità.

Chi occupa posizioni dirigenziali a livello culturale, aziendale e soprattutto chi sta al governo decide attivamente cosa viene riconosciuto o cosa no. Non sono le ultime voci del coro degli oppressi a spodestare chi ha sempre avuto il predominio.

Ribaltare la narrazione per mantenere lo status quo è forse la vera origine di un meccanismo scorretto.

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