Primo maggio, quando i diritti sul lavoro non ci sono. Riportiamo le testimonianze dei lettori, di chi è in cassa integrazione, in disoccupazione, di chi ha un contratto fittizio e di chi a sessant’anni un lavoro non riesce a trovarlo.
Il primo maggio è la festa dei lavoratori e ogni anno ci ricorda che molti italiani i diritti sul lavoro non li hanno.
Con la pandemia e la crisi non solo sanitaria, ma anche sociale ed economica che ne è derivata, è forte il grido di aiuto che arriva dal mondo del lavoro.
Money.it ha raccolto alcune testimonianze per dar voce a chi è ben lontano dal godere di diritti sul posto di lavoro. Sono voci di precarietà, incertezza e sofferenza del non vedere uno spiraglio alla fine di un tunnel che in un momento di crisi sembra ancora più buio e senza via d’uscita.
Sono storie di chi non sa come tirare avanti perché è in cassa integrazione, di chi ha un contratto per meno ore di quelle effettivamente lavorate, di giovani precari con un misero stipendio. Storie di chi a sessant’anni ha perso il lavoro, ma allo stesso tempo non può andare in pensione ritrovandosi in un limbo di disperazione.
I nomi dei nostri lettori sono nomi di fantasia, ma le storie sono tragicamente vere e meritano risposte nel giorno in cui si dovrebbero festeggiare il lavoro e i diritti conquistati sul lavoro, ma che si stanno pian piano perdendo.
La storia di Claudia, giovane educatrice precaria
Per questo primo maggio la prima storia di diritti sul lavoro che non ci sono che vogliamo raccontarvi è quella di Claudia (nome di fantasia) giovane educatrice precaria.
Claudia non ha neanche trent’anni, lavora in un asilo nido privato che in piena emergenza Covid ha chiuso. I nidi privati, più dei pubblici, hanno vissuto da quando è iniziata l’emergenza una crisi senza precedenti.
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Claudia è laureata, formata e altamente specializzata. Aveva finalmente trovato un lavoro, con un contratto per poche ore mensili, ma con le sostituzioni e gli straordinari riusciva a raggiungere fino a due mesi fa uno stipendio dignitoso. Come lei stessa ci scrive:
“Da quando mi sono laureata nel 2016 non sono mai riuscita ad avere un contratto che durasse per più di un anno scolastico, con uno stipendio che il più delle volte non supera gli 800 euro mensili e ovviamente sempre in nidi privati, perché lavorare al Comune vuol dire essere ancora più precarie, spostate giornalmente in un asilo diverso. Quest’anno ho dovuto accettare un contratto da 54 ore mensili (circa 2 al giorno). Prendo circa 8 euro e 50 all’ora (sono 459 euro al mese n.d.r.). L’ho fatto perché vengo chiamata per sostituire anche le colleghe assenti quindi riesco a raggiungere anche le 100 ore al mese, con gli straordinari pagati di più e lo stipendio che quindi lievita considerevolmente. Ero contenta di aver trovato questo lavoro, seppur ancora con scadenza alla fine dell’anno scolastico, ma poi il baratro. Le scuole chiuse e mi ritrovo a casa per settimane, facendo video con delle attività da proporre ai miei bambini che sono a casa. Non ho potuto vivere il contatto diretto che è fondamentale in una relazione pedagogica, soprattutto quando i bambini hanno due anni o poco più. Per non parlare del disastro sul mio bilancio economico: vengo pagata per il mio lavoro in smart working (un video a settimana per i bambini può considerarsi lavoro?) ma solo per le mie ore da contratto. Quindi lo stipendio si è ridotto a circa 300-400 euro al mese, con cui non si riesce a pagare nemmeno metà dell’affitto. È assurdo che io debba anche sentirmi fortunata dal momento che ci sono molte mie amiche che al contrario non vengono pagate. Ci ritroveremo forse tutte a dover fare le baby sitter in nero per poter sopravvivere. Questa sarà la vita di molte di noi per i prossimi mesi, forse anche per il nuovo anno scolastico se non verremo riconfermate.”
Claudia si lascia andare anche a una considerazione importante sui bambini e la situazione di disagio che vivono:
“Gli insegnanti della scuola dell’obbligo sono riusciti a mantenere un qualche contatto con i loro alunni durante le chiusure, noi educatori abbiamo bambini troppo piccoli per avere un riscontro. Cosa arriverà a loro non possiamo saperlo. Spero davvero che in futuro le cose possano cambiare per noi, perché i bambini sono la parte più importante della società e come diceva Maria Montessori: “Se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo.” Il futuro è loro, e i governi devono capirlo e imparare a riconoscere la nostra posizione.”
Storia di una famiglia in cassa integrazione
Insieme alla storia di Claudia, giovane educatrice appassionata e purtroppo precaria, ci sono arrivate altre testimonianze, tra queste quella di una famiglia intera in cassa integrazione.
Sandra (nome di fantasia) ha quarantacinque anni ed è in cassa integrazione. Lavorava in un bar, fermatosi a causa dell’emergenza. Anche il marito di Sandra è in cassa integrazione. La sua è una famiglia numerosa, ha cinque figli, due maggiorenni e tre minorenni, ma anche due nipoti. Anche i due figli grandi di Sandra, uno dei quali ha i due bambini da sfamare, con il Covid sono stati messi in cassa integrazione. I pagamenti all’inizio sono arrivati a rilento, in ritardo.
Sappiamo dalle cronache che sono tanti, troppi i lavoratori in cassa integrazione che per molto tempo hanno aspettato o aspettano i pagamenti.
Lo stesso disperato appello arriva da Patrizia (nome di fantasia), una donna di sessant’anni che ancora non ha i requisiti per accedere alla pensione ed è senza lavoro. Suo marito, cuoco, ha anche lui sessant’anni e anche lui fermo in disoccupazione.
La disoccupazione sta per scadere, pagano un affitto e non sanno cosa ci sarà fra qualche mese quando entrambi in un’età critica per trovare un lavoro non sapranno come tirare avanti.
Patrizia non vuole chiedere aiuto allo Stato, non vuole il reddito di cittadinanza perché ha sempre preferito lavorare. Quello che chiede è che vi sia una maggiore attenzione per le persone della sua età che hanno difficoltà a trovare un lavoro e che dovranno aspettare comunque anni prima di poter accedere alla pensione.
Concludiamo la nostra raccolta di testimonianze con il messaggio di Sonia (nome di fantasia) che lavora in un hotel di lusso gestito a quanto pare con pratiche poco ortodosse. Scrive Sonia:
“Mi hanno messo in regola con un part-time da 3 ore al giorno anche se ne lavoro il doppio. La verità è che ci sfruttano approfittando della necessità. In busta paga ci vengono sottratti 400 euro di tasse ogni mese. Le tasse sono alte e le aziende come la mia sfruttano noi lavoratori anche dichiarando il falso: che lavoriamo 3 ore per esempio e che la domenica siamo a casa.”
E in un primo maggio che per molti sembra senza diritti conclude:
“In Italia la gente vive per lavorare e rimettendoci la salute, laddove il costo della vita è aumentato con uno stipendio che stenta a crescere. Si lotta per vivere alla giornata. Siamo un Paese senza speranza.”
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