Il 2020 non passerà alla storia solo come l’anno dell’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19 ma anche e soprattutto come il momento storico che ci ha messo di fronte alle sfide e alle varie pecche della digitalizzazione del sistema imprenditoriale e scolastico, facendoci abusare anche un po’ del termine smart working a discapito di una “resilienza” dei processi che dovremmo adottare. Ne abbiamo parlato con Enrico Miolo, Collaboration Leader di Cisco System Italia.
Volenti o nolenti per mandare avanti le svariate attività lavorative molte aziende, soprattutto quelle con una cultura professionale e personale un po’ più âgée, hanno dovuto “cedere” all’idea di avere i propri dipendenti al lavoro da casa. Di fatto dove non è arrivata per anni una certa e tanto agognata evangelizzazione tecnologica, appannaggio forse delle aziende più giovani o dalla forma mentis più innovativa, lo ha fatto la situazione contingente di questo anno così unico nella sua storicità e intensità, tanto da valerne quasi dieci per alcune situazioni e accelerazioni. Una di queste, lo abbiamo già anticipato, è stato passare da 500.000 a 8 milioni di lavoratori che hanno adottato il remote working, costringendo a “un radicale e repentino ripensamento dell’organizzazione del lavoro”, come recita un comunicato del Ministero del lavoro di maggio 2020, con tutte le conseguenze e le difficoltà del caso. Situazione che ha coinvolto sia il settore pubblico che quello privato.
Da marzo a oggi, che siamo verso la conclusione dell’anno, la necessità di sistemi di videoconferenze che tenessero e che dessero un’idea di modern workplace è stata un po’ all’ordine del giorno. A onor del vero tale tendenza era già un trend crescente ben prima della pandemia e non solo in Italia ma a livello globale; infatti, secondo i dati di Grand View Research di aprile 2019, nel 2017, quindi in tempi davvero non sospetti e non assoggettati a restrizioni così stringenti, tale mercato si aggirava negli Stati Uniti intorno ai 3,4 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuo pari al 9,2% in un periodo di previsione compreso tra il 2018 al 2025. Chiaramente altri erano esigenze e obiettivi per i quali si stimava un incremento del genere, quali una maggiore internazionalizzazione e globalizzazione delle imprese e la diffusione di modelli e strumenti di lavoro che connettessero competenze di lavoratori a distanza della medesima azienda per fare squadra e sistema.
Il focus sull’Italia e i lavoratori in smart working, invece, lo restituisce l’ Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano con dati che si riferiscono a un periodo antecedente all’emergenza Covid-19, confermando che gli smart worker sono stati 570.000. Doverosa, in ogni caso, la differenza sia semantica che concettuale tra lo smart working vero e proprio, realtà ancora lontana dall’essere realizzata nel nostro Paese benché i risultati in termini di maggiore produttività e motivazione possano considerarsi inoppougnabili, e il remote working o telelavoro che, di fatto, ha permesso di trasferire a casa propria, quando le condizioni e le mansioni lo consentono, le attività quotidiane lavorative.
Di tutto questo e di resilienza aziendale e di processi abbiamo parlato con Enrico Miolo, Collaboration Leader di Cisco System Italia, manager di lungo corso e appassionato di tecnologie atte a migliorare la vita lavorativa di aziende e dipendenti, che vanta esperienze internazionali pregresse per Nortel e British Telecom.
Di seguito vi lasciamo un estratto della nostra imperdibile chiacchierata con lui che potrete ascoltare per intero nella seconda puntata di Brand & Leader.
Come si configura il mercato italiano delle soluzioni cloud e dei sistemi di videoconferenza nel 2020?
Il 2020 ha visto una grande richiesta di soluzioni cloud (...) che riguardano
la collaborazione, la capacità delle persone di lavorare remotamente con degli strumenti abilitati dal cloud (...) Dal punto di vista tecnologico, questo ha portato anche degli stimoli molto importanti sull’innovazione. (...) Il mondo delle videoconferenze ha visto una grandissima richiesta e una grandissima crescita, perché se il cloud è l’elemento che abilita i remote workers, la videoconferenza è l’elemento che digitalizza l’ufficio. E quindi lo rende collegato con gli utenti remoti. Anche in questo caso, c’è stata una grandissima spinta all’innovazione grazie a queste richieste di mercato, per cui non ha più senso parlare soltanto di videoconferenza come di un elemento che permette le videochiamate a distanza, ma ha più senso parlare di endpoints intelligenti, che permettono per esempio di contare quante persone hanno davanti in uno spazio, magari per gestire il distanziamento sociale, o avere molti dati su un ufficio e quindi renderlo più innovativo in termini anche di benessere, della temperatura degli ambienti, di quali sono i dati di utilizzo di questi ambienti. Quindi i cloud e le videoconferenze hanno decisamente visto una grandissima crescita, e sono gli abilitatori di quello che oggi è l’hybrid workplace, cioè una piattaforma dove si lavora in modo ibrido, sia in remoto, sia negli uffici e in tutte le sfumature che ci sono nel mezzo.
In base alla tua esperienza e formazione accademica quanto conta avere un atteggiamento di “resilienza aziendale” in momenti difficili?
(...) La resilienza è sicuramente un aspetto fondamentale per il successo di un’azienda. Io penso che si possa parlare di resilienza nel momento in cui si sposta il concetto di remote working verso un concetto di vero smart working. Questo cosa vuol dire? Da un lato vuol dire lavorare sulle persone che devono lavorare per obiettivi, devono avere la flessibilità e gli strumenti adatti per portare a termine il proprio lavoro nel modo per loro più congeniale. Dall’altro lato vuol dire lavorare anche sui processi di business di un’azienda, che devono essere resilienti. Nel senso che si devono adattare a queste situazioni di criticità o di forte trasformazione. Faccio un esempio molto pratico, pensiamo per esempio al mondo della moda, del fashion: se, prima della pandemia, queste aziende potevano ricevere nei propri showroom i clienti, magari quelli più importanti, mostrando le collezioni e i prodotti che potevano proporre sul mercato, oggi a causa dell’impossibilità di viaggiare, non c’è più questo processo. Ecco che, se si adatta questo processo con tecnologia, in modo che i clienti possano comunque vedere a distanza gli showroom e quindi trattare l’acquisto di prodotti fisici, abbiamo un esempio di un processo che si è trasformato ed adattato in questo caso, ad una lievitazione della pandemia. Quindi è fondamentale, per essere resilienti, lavorare sulle persone, ma anche sulla resilienza dei processi che sono il core business delle aziende.
Quali sono le criticità a cui deve far fronte un’azienda che ha sposato la filosofia del remote working?
(...) Guardando la domanda con un occhio più tecnologico, penso che uno degli errori più comuni sia quello di banalizzare la tecnologia che abilita lo smart working
ed il remote working. Faccio un esempio molto concreto: con questa diffusione di remote working c’è stato un aumento molto sensibile dei crimini di tipo informatico,
problemi legati alla cybersecurity. All’inizio, soprattutto nelle prime ore dell’emergenza, non molti si sono fatti queste domande o chiesti se la piattaforma che stavano adottando fosse intrinsecamente sicura. (...) Quindi un primo elemento fondamentale, secondo me, è quello della sicurezza intesa come crittografia, come privacy, come gestione dei dati, come compliance verso le normative GDPR etc. (...)Quindi chi gestisce questa piattaforma deve essere in grado di gestire più che un semplice software, ma deve poter gestire software, hardware, cloud, deve avere dati analitici per prendere decisioni strategiche, su questa piattaforma che abilita l’intero lavoro di un’azienda. Dal punto di vista tecnologico direi che il problema è la banalizzazione della tecnologia.
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