Pechino continua a svalutare lo yuan, sottotraccia. E gli Usa benedicono la mossa come rapido ed efficace contributo al raffreddamento dell’inflazione. Per questo il Pentagono ha approcciato Mosca?
Il 12 maggio, il mondo ha riacceso i riflettori su Hong Kong per l’arresto del cardinale Zen, leader religioso ma anche politico della protesta pro-democrazia nell’ex colonia britannica. Subito rilasciato, l’accusa nei suoi confronti è parsa però un monito chiaro: chiunque interferisca negli affari interni della Cina, mettendone a rischio la sicurezza, entra nel mirino. Sullo sfondo, una cartolina di Taiwan si stagliava simbolicamente nitida.
Ma il 12 maggio a Hong Kong è successo dell’altro. E non è da escludere che i due eventi siano collegati fra loro. Per la prima volta dal 2019, la Hong Kong Monetary Authority è intervenuta per sostenere la valuta locale, il dollaro. Per l’esattezza, 1,59 miliardi di Hong Kong dollars acquistati per tamponare la deriva innescata da rialzo dei tassi della Fed e modesto intervento di sostegno espansivo nella madrepatria cinese. Nulla che lasci prevedere il più volte ventilato abbandono del peg con la valuta statunitense, di fatto scudo agli attacchi speculativi e garanzia di status di hub finanziario riconosciuto in tutto il mondo. Ma questa volta potrebbe dipanarsi una matassa differente dal passato, poiché le recenti vendite fanno capo a fughe di capitali che, appunto, basano la loro ragione d’essere sul combinato di approccio dei due giganti: una Fed falco e una Pechino che vede la propria crescita minacciata dalle restrizioni da Covid e pare voler prendere tempo. E riflettere.
Insomma, qualcuno lascia intendere che oltre al chiaro segnale politico contenuto nell’arresto del cardinale Zen, vi sia stata la volontà di far coincidere il timing della mossa - destinata a creare scalpore internazionale - per evitare che i mercati si allarmassero troppo per quel primo, forzato intervento di sostegno. E il fatto che l’alto prelato sia stato rilasciato dopo poche ore, pare offrire una conferma del classico effetto tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma ecco che questo grafico
ci mostra come il mondo delle valute stia silenziosamente muovendosi sottotraccia. L’ultima volta che lo yuan cinese ha segnato un drawdown del 3% a livello settimanale sul dollaro fu nel 2015, in pieno processo svalutativo e di stimolo dell’economia del Dragone. Da inizio anno siamo a un -7%, quindi meno della metà delle svalutazioni del 2015-2016 e 2018-2020. Ma proprio questo delta sembra garantire ulteriore ribasso in arrivo. Quantomeno, stando allo spread fra yuan onshore e offshore, tipico proxy - in caso di divaricazione - di pressione della valuta per abbandonare la nazione verso altri lidi.
Perché è importante questa dinamica? E perché la Cina, a parte un paio di interventi del National Team, pare totalmente indifferente alle continue performance negative del mercato azionario, a sua volte giustificate dalla poca propensione di chi investe ad accettare supinamente e senza reagire le continue intrusioni di regolamentazione del governo in ampi e differenti settori di economia e società, dall’istruzione a Internet, dalla supply chain alimentare ai servizi di trasporto e consegna privati? Questo secondo grafico
mostra infatti plasticamente questa dinamica, correlando la ratio fra CSI-300 (l’indice benchmark) e rendimento del bond decennale cinese proprio con l’andamento spot dello yuan. Perché Pechino ha bisogno silenziosamente di portare quel 7% di svalutazione nel range storico del 12-15%. Insomma, guerra valutaria sottotraccia. Ma benedetta. Perché a fronte dell’ultimo dato CPI dell’8,3%, Washington vuole che la Cina svaluti. Perché questo rappresenta un attivo contributo proprio al raffreddamento dell’inflazione negli Usa.
Insomma, i due giganti in guerra continuano a reggersi uno con l’altro come due ubriachi che cercano in qualche modo di tornare a casa. Vasi comunicanti, equilibri che sottendono la tenuta del sistema. E che, nel contesto attuale, potrebbero aver spinto il Pentagono ad alzare il telefono e chiamare il Cremlino, al fine di raggiungere un cessate il fuoco che vedrà Mosca uscire con l’orgoglio intatto da un eventuale principio di processo negoziale. I continui sbandamenti del presidente ucraino, fra aperture e ultimi rigurgiti di nazionalismo bellicista, parlano chiaro: Washington sta per imporre la legge del male minore a Kiev, consapevole che quella cinese appare l’unica mediazione possibile.
E che, nel contempo, proprio l’operatività valutaria di Pechino rappresenta la prima, più rapida ed efficace scorciatoia per ottenere il risultato più importante. Mostrare al mondo come il trend dei prezzi abbia raggiunto il suo picco, rendendo così meno stridente il profilo di una Fed che cominci a rimangiarsi le promesse di normalizzazione, potendo così priorizzare la lotta alla recessione in arrivo attraverso nuovo stimolo. Di fatto, la guerra valutaria incruenta sta non solo scalzando quella armata sul campo e aprendo scenari di dialogo ma anche creando i presupposti di una pax del Qe che potrebbe far presto tacere i cannoni e far ripartire le stamperie delle Banche centrali. Lo shock c’è stato, ora occorre sedarlo.
Ma un sistema basato sulla ciclicità esiziale di emergenze sempre più estreme è destinato, prima o poi, a saltare. O veder trionfare un solo soggetto. Quella sarà la vera guerra, lo scontro fra due mondi. Uno dei quali - quello sino-russo-indiano - esce da questa guerra asimmetrica con un nuovo impianto di backing valutario legato alle commodities. Viene da chiedersi quale sia il ruolo dell’Europa in questa enorme centrifuga diplomatica di tensioni messasi in funzione, se non quello di chi garantisce uno sponda alle manovre altrui. Come fanno i pali durante i furti. I quali, si sa, devono allertare i complici dell’arrivo della polizia. E per questo, spesso sono i primi (e gli unici) a essere arrestati. Attenzione, perché la spartizione è in atto, il Risiko reale è iniziato. E l’Ue pare ancora impegnata a discutere di un embargo sul petrolio e sul gas che suona già asincrono. E anacronistico.
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