Alla vigilia dei bandi, spuntano i conti impresentabili del gigante elvetico. Ma guardando agli investimenti diretti in Russia, sorge il dubbio di un messaggio in codice: non disturbare il conducente
Un salto indietro di oltre 40 anni in pochi giorni. Il vento maccartista cominciato a spirare con il Russiagate e la presidenza Trump, oggi appare un tifone. Le prime pagine dei giornali rilanciano titoli degni della Guerra Fredda e, come a quel tempo, risorge implicita ed esplicita una divisione bipolare del mondo: Bene contro Male. Nato da una parte, Russia dall’altra.
Per ora, Cina in panchina come un attaccante di lusso che viene risparmiato nel primo tempo per entrare in campo quando il gioco si fa davvero duro. E non manca molto. Perché, volendo proseguire con le metafore calcistiche, qualche entrata in tackle scivolato e con il piede alzato si è già registrata. Ad esempio, il caso Credit Suisse, ennesima tegola che ha colpito il colosso elvetico. Dal nulla e a freddo, spuntano intestatari impresentabili di conti correnti: trafficanti di uomini, dittatori, evasori fiscali, malavitosi. Per due giorni, la notizia diviene virale. L’armamentario tipico dell’alieno appena sbarcato da Marte con il suo misto di stupore e indignazione intasa media e social. Poi sparisce.
In compenso, a stretto giro di posta arrivano le sanzioni contro la Russia dopo la decisione del Cremlino di riconoscere i territori del Donbass e inviare truppe per preservare l’ordine. Sanzioni strane. Decisamente strane. E non tanto per il loro carattere di progressività, poiché a ogni escalation bellica di Mosca dovrebbe seguire un nuovo pacchetto di bandi e restrizioni. Ma anche per i bersagli. Ad esempio, il debito sovrano russo. Di fatto, si punta a chiudere l’accesso al mercato dei capitali a Mosca. Sperando forse in qualche scossone repo per gli istituti moscoviti. In compenso, l’energia per ora rimane dispensata. Però, bando agli investimento nel Donbass. Come se normalmente dalle parti di Donetsk fosse necessario l’intervento della polizia per disperdere la folla di imprenditori esteri.
In compenso, questa tabella
ci mostra dell’altro rispetto proprio agli investimenti esteri diretti in Russia: il festival del paradiso fiscale, più o meno dichiarato. Ed ecco che unendo i punti, forse quello scandalo a orologeria su Credit Suisse assume i contorni del monito, quasi un messaggio in codice telegrafato dal conducente di turno di questa operazione di destabilizzazione su larga scala: non disturbare. Altrimenti, le liste di conti correnti potrebbero moltiplicarsi. E quell’immagine parla chiaro: il fronte del Bene ha la coscienza sporca. Molto sporca, apparentemente. Perché se da un lato condanna la Russia e il suo zar, dall’altro corre a investire attraverso strumenti fiscali e di governance che tradiscono la volontà di segretezza e discrezione. Un po’ come quella garantita ai correntisti di Credit Suisse. E di metà delle grandi banche del mondo, al netto dell’ipocrisia.
E se notoriamente Cipro è il paradiso degli oligarchi, tanto da aver creato parecchi fastidi dalle parti di Mosca e dintorni durante la stagione dei controlli di capitale imposti dall’Ue, è chiaro che in quel Paese transitino interessi inconfessabili. Non perché illegali, ci mancherebbe. Bensì perché poco edificanti, se rivelati e confermati nella buona società, quella che da 72 ore sta invocando l’espulsione di Vladimir Putin dal genere umano. La Russia è il Male, è il nemico. E, soprattutto, è formalmente sotto regime sanzionatorio per l’annessione della Crimea. Ma è anche un partner commerciale sempre più importante. E sempre meno manovrabile.
Perché al netto di mille analisi geopolitiche, il problema è uno solo: il mondo si trovava benissimo nel rapportarsi con un burattino manovrabile come Boris Eltsin. Poi, la festa è finita. E in vent’anni, la Russia è cambiata. Talmente da essere arrivata a questo risultato:
grazie soprattutto all’export di petrolio salito a un controvalore di 32 miliardi di dollari nel quarto trimestre dello scorso anno, il massimo dal 2014, Mosca può vantare un surplus commerciale di 67,6 miliardi, questo nonostante un livello record raggiunto anche dalle importazioni, a loro volta ai massimi dal 2013. Soltanto le esportazioni di petrolio e gas hanno toccato i 240 miliardi di dollari lo scorso anno, un +60% dai 150 miliardi del 2020. E stando a Eurostat, il deficit commerciale dell’Unione Europea verso la Russia è salito dai 60 miliardi del 2020 ai 99 miliardi dello scorso anno.
Tutto a carico dell’energia. Casualmente, rimasta fuori dal computo del primo round di sanzioni. Certo, la sospensione delle concessioni di Nord Stream 2 pesa ma oltre a essere appunto solo una sospensione, quindi revocabile, questa decisione è stata presa dal governo tedesco in via cautelativa a livello sovrano e prima dell’emanazione delle restrizioni Ue. Quindi, deciderà il Bundestag gli sviluppi futuri e non Bruxelles. Insomma, la Russia è uno specchio impietoso dell’ipocrisia imperante. E non solo europea. Basti guardare questo grafico,
proprio alla luce della mossa statunitense di bloccare il finanziamento del debito sovrano di Mosca. Al netto della volontà politico-bellica di spingere la Russia fra le braccia della Cina, al fine di garantirsi appunto un secondo tempo scoppiettante della Guerra Fredda 2.0 che metta il turbo al warfare di lungo periodo, Washington pare non cercare altro effetto concreto. Solo cortina fumogena.
Perché appare quantomeno illusorio optare per quel tipo di strangolamento dell’avversario, quando questi può vantare una ratio debito/ Pil al 19,4%. Difficile insomma pensare di fiaccare il Cremlino con le aste deserte, alla luce poi di certi dati di investimenti esteri diretti e surplus commerciale. Inoltre, non solo Mosca ha praticamente azzerato le sue detenzioni di Treasuries, passando dai 176 miliardi del 2010 agli attuali 3,9 miliardi ma, contemporaneamente, ha smesso di utilizzare le proprie riserve per acquistare bond sovrani esteri e ha optato per l’oro fisico. Chissà se, alla luce degli sviluppi odierni, quella scelta viene ancora ritenuta jurassica in tempi di criptovalute?
In compenso, questo grafico finale
mostra come l’Europa dovrebbe stare molto attenta al trend che potrebbe sostanziarsi in un altro ambito di debito, decisamente più a rischio di impatto sanzionatorio rispetto a quello sovrano: il ramo corporate sotto forma di prestiti che giace nei bilanci di tre delle principali banche del Vecchio Continente, esposte all’economia reale del Male. Unicredit in testa, oltretutto. E proprio oggi, mentre qualcuno dalle parti del board dell’Eurotower invitava tutti a mantenere la mente aperta verso un approccio meno drastico sui tassi, proprio alla luce dello scenario ucraino, la Banca centrale intimava agli istituti stress test di impatto su un fall-out debitorio russo. E per domani è atteso un vertice informale a Francoforte.
Insomma, le sanzioni finora comminate dicono molto sul livello di disperazione di chi cerca in Mosca l’ennesimo alibi di crisi per calciare il barattolo. E certi investimenti diretti in Russia attraverso canali esotici parlano la lingua di un’ipocrisia che ben si accompagna a quella di voler mostrare al mondo la faccia feroce, brandendo in mano la pistola ad acqua dello stop agli investimenti su debito sovrano russo. Ma l’importante è apparire e non essere. E qualcuno, con quella sparata a orologeria sui conti impresentabili di Credit Suisse, potrebbe aver fatto notare a tutti come non fossero accettate proteste o lamentele rispetto alla recita a soggetto sulle sanzioni. Non ora, quantomeno.
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