La lira turca ha perso il 28,6% del suo valore rispetto al dollaro nel 2018, e secondo alcuni è vicina una crisi valutaria che renderà necessario l’intervento dell’FMI
La Turchia potrebbe essere diretta verso una crisi valutaria.
È questo lo scenario che emerge sul fronte mercati emergenti secondo diversi analisti, pronti a osservare e leggere, lo scorso martedì, il deprezzamento della lira turca del 2% contro il dollaro: in quell’occasione la banca centrale del Paese aveva appena scioccato gli investitori lasciando invariato il tasso d’interesse, al 17,75%.
Il trend negativo registrato nell’ultima settimana va a peggiorare ulteriormente la performance affatto brillante della divisa di Ankara, che ha perso il 28,6% del suo valore rispetto al dollaro negli ultimi sei mesi.
Gli economisti si aspettavano un aumento del tasso d’interesse per combattere l’inflazione, che ha superato il 15% a giugno. Molti osservatori sostengono che la decisione della banca centrale è da imputare alle pressioni del Presidente Erdogan, da sempre sostenitore di bassi tassi.
Turchia: sanzioni Usa, Erdogan e altri elementi che spingono verso la crisi
Tim Ash, economista che si dedica ai mercati emergenti presso BlueBay Asset Management, ha definito “incomprensibile” la decisione presa dalla TCMB.
I mercati emergenti di tutto il mondo sono sotto pressione, ma secondo gli analisti la Turchia in particolare si mostra molto vulnerabile e potrebbe andare verso un crollo della valuta, che renderebbe necessario un salvataggio o limiti sulla quantità di denaro che lascia il Paese.
Intanto Trump lo scorso giovedì ha minacciato di imporre sanzioni contro la Turchia. La causa scatenante è l’imprigionamento di un pastore americano, arrestato con le accuse di terrorismo e spionaggio. La vicenda in ogni caso non promette nulla di buono sul fronte economico e valutario.
Negli ultimi mesi gli investitori si sono spostati verso gli Stati Uniti, attratti dall’aumento dei rendimenti obbligazionari e dal dollaro più forte. Un cambio di trend che sta danneggiando i mercati emergenti, tanto che l’Argentina è stata costretta a giugno a chiedere all’FMI un piano di salvataggio da 50 miliardi di dollari.
Anche la Turchia mostra evidenti segnali di rischio. L’economia del Paese è cresciuta del 7,4% nel primo trimestre rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma la sua crescita è stata spinta in gran parte da investitori stranieri, che ora si interrogano sulla capacità del Paese di estinguere i propri debiti.
Erdogan, rieletto a giugno, rappresenta un’altra fonte di incertezza. Il suo potere di influenzare la politica economica appare palese, e ha persino nominato il genero Ministro dell’economia.
Secondo Mujtaba Rahman di Eurasia Group il governo turco deve mantenere la spesa sotto controllo. Se il Ministro delle finanze non riesce a dare un messaggio chiaro, i rischi di una crisi e un conseguente intervento dell’FMI aumentano sensibilmente.
Ash ritiene invece che il primo elemento da tenere sotto controllo per la banca sia proprio l’inflazione, prima che la situazione precipiti definitivamente:
“È possibile che si arrivi a uno scenario in cui sarà coinvolto l’FMI, ma potremmo esserne ancora lontani visto che i turchi hanno diversi strumenti politici a loro portata per stabilizzare la situazione da soli. Dovrebbero semplicemente usarli.”
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