Per tutti è stato il falco del rigore ma l’ormai ex capo della Bundesbank ha soprattutto rimpatriato con tre anni di anticipo i lingotti detenuti all’estero. Temendo un altro 2011. Già in gestazione?
Via Angela Merkel, via Jens Weidmann. Apparentemente, l’azionista di maggioranza di Ue e Bce sembra lasciare il campo. Il Covid ha aperto una nuova epoca, basata su un Pepp che pare destinato a divenire strutturale e a sforamenti di bilancio che qualcuno vorrebbe modellare attraverso una riforma in senso meno rigido del Patto di stabilità: a una prima, rapida analisi sembra aprirsi l’era delle colombe. E del debito.
Con hristine Lagarde formalmente alla guida ma Mario Draghi dietro le quinte a dettare musica e tempi. Non a caso, gli spread in un primo tempo hanno festeggiato la notizia delle dimissioni del numero uno della Buba, dopo dieci anni di servizio e con cinque anni di anticipo sulla scadenza naturale. Di fatto, presagendo una staffetta che allarghi ulteriormente il fronte anti-rigorista in seno al board. E, questione tutt’altro che secondaria, già prezzando il ridimensionamento dei pretoriani storici di Weidmann come i numeri uno delle Banche centrali di Olanda e Austria, ora orfani del loro leader.
Dal canto suo, il banchiere tedesco non ha fatto nulla per nascondere irritazione e scontento nei confronti dell’attuale corso Bce. Pur motivando la fine del suo mandato al 31 dicembre come il mero epilogo di una lunga stagione che ora merita l’apertura di un nuovo capitolo, sia per la Bundesbank che per il suo ormai ex governatore, Weidmann ha consigliato di non guardare unilateralmente ai rischi di deflazione e di non perdere di vista i rischi potenziali dell’inflazione, augurandosi - in prospettiva - che la Bce continui a rispettare il suo stretto mandato e che conservi la sua indipendenza dalla politica fiscale e dai mercati finanziari.
Ovviamente, l’ipocrisia ha regnato sovrana nelle versioni ufficiali del commiato. Se Weidmann ha ringraziato Christine Lagarde per l’approccio costruttivo, quest’ultima si è definita immensamente dispiaciuta e impressionata dalla sua empatia per i colleghi e dalla volontà di trovare sempre un compromesso. Fin qui, la cronaca. E l’ufficialità. Dietro le quinte, c’è dell’altro. Primo, la mossa di Jens Weidmann rappresenta e si prefigura come una bocciatura ex ante e senza appello del governo semaforo cui Olaf Scholz sta lavorando in questi giorni. Il tutto, nonostante uno dei due punti qualificanti su cui Spd, Verdi e Liberali avrebbero trovato un accordo preliminare sia proprio il no a ogni revisione che porti a un ammorbidimento del Patto di stabilità.
Troppo pesante per l’ex numero uno della Bundesbank la presenza al fianco di Christine Lagarde della sua connazionale - ed ex collaboratrice proprio della Bundesbank - Isabel Schnabel, colomba ante litteram e con dichiarate simpatie politiche a sinistra. Un governo come quello che starebbe per nascere a Berlino rappresenta, di fatto, la sponda politica perfetta per garantire al Consiglio direttivo mano libera per una prosecuzione sotto mentite spoglie del Pepp anche dopo il 31 marzo. Quindi, fra un periodo infinito di scontro aperto che avrebbe generato sterili fratture con rischi concreti anche per l’economia tedesca e un’uscita di scena che suoni platealmente come mozione di sfiducia, Jens Weidmann ha scelto quest’ultima.
Confidando che sia il mercato ad andare a vedere il bluff della Bce a livello di compressione degli spread e ristabilendo così in maniera drastica un minimo sindacale di premio di rischio che vedrebbe il Bund in situazione di assoluta sicurezza. Secondo, la mossa di Jens Weidmann a due settimane dall’uscita di scena di Angela Merkel non rappresenta soltanto la concreta chiusura di un’epoca ma anche la risposta a una delle domande che più hanno silenziosamente tormentato il mercato in questi ultimi anni: perché la Bundesbank nel 2013 ha lanciato il suo piano di rimpatrio dell’oro fisico detenuto a New York e Parigi, fissando il termine delle operazioni nel 2020 e portandolo invece a termine con tre anni di anticipo? Queste due tabelle
mostrano in concreto l’accaduto: dal 31% del 2013, oggi la Germania detiene in patria il 50,6% del suo oro fisico, circa 1.710 tonnellate. Più nulla invece presso la Banque de France, dopo le 374 tonnellate riportate a casa nei quattro anni di operatività, mentre restano 1.236 tonnellate presso la Fed di New York (36,6% del totale) e 432 tonnellate presso la Bank of England (12,8% del totale).
Insomma, Jens Weidmann ha di fatto compiuto quello che nelle segrete stanze di Francoforte era ritenuto l’atto più importante di tutti. Non è un caso che a imporre alla Bundesbank un controllo sulla qualità e sulla stessa presenza fisica dell’oro stoccato all’estero fu nel 2012 la medesima Corte costituzionale di Karlsruhe che nei mesi scorsi ha dichiarato guerra ai programmi di Qe della Bce. La crisi dei debiti sovrani che nel 2011 quasi uccise in culla l’euro aveva spaventato i togati tedeschi ma ancora di più lo aveva fatto, paradossalmente, Mario Draghi con il suo Whatever it takes. All’epoca, il membro del board della Bundesbank, Carl-Ludwig Thiele, dichiarò ad Handelsblatt come l’operazione fosse unicamente finalizzata a un rafforzamento delle fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini/risparmiatori, spaventati dalla crisi greca.
Ma un portavoce della stessa Banca centrale tedesca, interpellato sotto garanzia di anonimato da Forbes, ammise che l’operazione era da mettere in relazione a un contingency plan in caso di nuova crisi valutaria nell’eurozona. Il 23 agosto del 2017 - con appunto tre anni di anticipo - la Bundesbank di Jens Weidmann confermava con un comunicato la fine del piano di rimpatrio e la certificazione della qualità e quantità di barre e lingotti rimpatriati. Perché, però, tanta fretta per riportare a casa un controvalore di soli 28 miliardi di dollari, a fronte delle cifre spaventose che le Banche centrali cominciavano a mettere in campo con acquisti mensili?
Forse perché in caso di crisi valutaria reale, l’oro resta - e opera da backing per un’eventuale, nuova valuta, magari anche digitale - mentre la carta di debito stampata dall’impulso elettronico della Bce vale zero o poco più? Tutti ricorderanno Jens Weidmann per le sue battaglie in nome del rigore e per la sua nomea di falco, braccio armato in seno al board di quel Wolfgang Schaeuble che negli anni è stato nemico giurato di Mario Draghi. In realtà, la sua legacy è quella dell’uomo che riportò a casa l’oro dei tedeschi, spedito all’estero negli anni della Guerra Fredda per timore di un’invasione sovietica.
Ora restano due interrogativi, uno più inquietante dell’altro. Primo, la fretta fu figlia del poco oro fisico in realtà presente nei caveau delle Banche centrali, quindi meglio portare a casa subito ciò che esiste piuttosto che ritrovarsi fra dieci anni con in mano solo certificati di deposito senza valore? Secondo, al netto del timore di barre e lingotti contenenti rame o chissà cos’altro che escano dalla Fed di New York, il conto alla rovescia verso una crisi esiziale dell’eurozona è davvero iniziato con il Covid e rischia paradossalmente di trovare il suo detonatore in una Bce in versione colomba e in un Mario Draghi nel ruolo che fu di Angela Merkel?
Meglio accelerare la pratica, se questa è la prospettiva vista da Francoforte. Al netto di chi governerà a Berlino e del suo programma. L’oro fisico disponibile ora è a casa, adesso occorrerà fare i conti con Target2 e soppesare le perdite inevitabili. Sarà per questo che Olaf Scholz ha subito messo in chiaro il no netto del suo governo a una riforma del Patto di stabilità che aumenti i rischi potenziali per i grandi creditori? Il silenzio dei Verdi, in tal senso, parla chiaro.
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