Stati Uniti e aborto: una guida per capire cosa sta succedendo oltreoceano dopo la decisione della Corte.
La politica divide, si sa, almeno nei paesi che hanno la fortuna di essere democratici e di consentire l’espressione libera del disaccordo: con il governo, con le istituzioni, con l’esercito, con la Chiesa. Gli Stati Uniti sono un caso di scuola nel fenomeno della diversità delle idee a ogni livello, tanto che è stata coniato il termine “culture war”, guerra di cultura, proprio per descrivere la acuta ostilità che anima i dibattiti sulle questioni più sensibili. Dalla educazione dei figli nelle scuole alle propensioni sessuali e di genere, fino alla questione dell’aborto, oggi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, e dei partiti, dopo la sentenza storica della Corte Suprema che ha cancellato il verdetto Roe-Wade del 1973.
Mezzo secolo fa una maggioranza (7 a 2) di giudici “attivisti” (nominati da presidenti dei due partiti) aveva introdotto il diritto “costituzionale” di abortire a livello federale, malgrado la Costituzione del 1787 non ne facesse alcun cenno. La settimana scorsa una maggioranza (6 a 3) di giudici “originalisti-testualisti” (nominati da presidenti repubblicani) ha ripristinato la situazione pre Roe-Wade. Mentre gli “attivisti” si sentono destinati a “produrre legislazione” anche senza aver quel mandato, perché credono di essere moralmente legittimati a creare nuove norme ovviamente in linea con la propria inclinazione ‘progressista’, gli originalisti-testualisti rispettano la lettera e lo spirito di quanto scritto nella prima Costituzione e di quanto è poi stato deciso dal Congresso, che ha il potere legislativo.
In virtù del federalismo che consente ai singoli Stati di legiferare su tutte le materie non previste e non coperte dalla Costituzione, prima del verdetto del 1973 l’aborto era legalmente permesso in diversi Stati: solo in quattro, però, era legale semplicemente “a richiesta”, mentre in altri era consentito con forti limitazioni. Ecco la situazione complessiva: 30 Stati lo vietavano senza eccezioni, quattro lo permettevano (New York, con Alaska, Washington, Hawaii), e gli altri 16 solo in specifici frangenti: in uno Stato in caso di stupro; in due in caso di pericolo per la salute della donna; in 13 in caso di pericolo per la salute della donna, stupro o incesto, o per probabile malformazione del feto.
Dopo la legalizzazione dell’aborto senza limiti a New York nel 1970, quello Stato divenne la destinazione di migliaia di donne di altri Stati che potevano permettersi la trasferta. È stato calcolato che nel 1971, l’84% degli aborti di cui si ha notizia ottenuti da donne al di fuori del loro Stato di residenza hanno avuto luogo nel New York State.
Erano gli anni della esplosione del femminismo, che portò con sé la rivendicazione delle donne di poter scegliere in materia di gravidanza (“il corpo è mio e me lo gestisco io”). L’esempio di New York era il modello da imitare, e da esportare nell’America tutta, anche in quella “profonda” del sud e del centro, dove i valori della famiglia tradizionale e della fede religiosa erano dominanti, tra i bianchi e anche tra i neri.
La società delle metropoli, liberal, tendenzialmente di sinistra, sorretta dai media nazionali in sintonia con le istanze e le mode del modernismo, culturalmente atea quando non apertamente anti-religiosa, riuscì a influenzare e a vincere il dibattito nazionale, e a bruciare cosi’ le tappe della legittimazione formale di questo “diritto”. Fu una smaccata vittoria del laicismo anti-confessionale, e una sconfitta drammatica per il mondo cristiano e delle altre fedi a favore della vita dal concepimento. Ma fu anche un “vulnus” all’esercizio ordinato dei processi decisionali come dovrebbero essere amministrati in uno stato di diritto che rispetta la divisione dei poteri, e il loro bilanciamento.
La forzatura di un verdetto uscito dalla Corte Suprema, organismo di 9 giudici non eletti dal popolo direttamente ma chiamati a vigilare sul rispetto della Costituzione e delle leggi, il fondamentale “terzo potere” che non legifera di suo, ha scatenato la prima cruenta battaglia della “culture war”. Se lo strappo istituzionale-giuridico di quel verdetto “attivista” ha offeso i politici conservatori, la conseguenza fattuale della sentenza ha ferito nel profondo, irrimediabilmente, la coscienza dell’America dei fedeli e della cristianità. E ha prodotto una mobilitazione di gruppi, di organizzazioni, di enti pro-vita che non hanno mai alzato la bandiera bianca. Che non hanno mai rinunciato all’obiettivo della eliminazione di quello che consideravano il massimo dei peccati, l’omicidio del feto. E che da allora hanno costituito una riserva di voti e consensi per i politici conservatori che hanno fatto propria la crociata per la sacralità della vita.
Si può discutere sul grado di sincerità religiosa intima dei presidenti repubblicani nell’appoggiare le istanze pro-vita - in testa George W. Bush, in coda Donald Trump- ma è innegabile che i Giudici Supremi da loro nominati sono stati funzionali ed efficaci nel dare alla Chiesa una grande vittoria, insperata per mezzo secolo, di principi e di vite salvate.
Dal 2016, i centri per la protezione delle gravidanze hanno protetto 800mila nascituri, secondo una analisi appena rilasciata dal Charlotte Lozier Institute. L’assistenza di questi enti è riuscita a cambiare la volontà delle donne gravide inclini ad abortire, con il 78% di loro che hanno deciso di tenere il figlio dopo aver visto l’ecografia. “Chiaramente milioni di bambini sono stati salvati dall’aborto grazie alle loro mamme che hanno visitato questi centri e hanno ricevuto il loro sostegno”, si legge nella relazione. Ciò era avvenuto sotto Roe v.Wade, quando il sistema legale mandava il messaggio che l’aborto non solo era permesso ma era un diritto costituzionale. Il nuovo contesto facilita indubbiamente la missione a difesa della vita di chi assiste le future mamme in dubbio. Non si sa quanti aborti in meno verranno fatti in futuro, ma è sicuramente prevedibile un calo dai 63 milioni che sono avvenuti dal 1973, di cui 930mila nel solo 2020.
I Democratici sono insorti contro il recente verdetto, convinti che la “scorciatoia” con cui la Corte Suprema del 1973 aveva legiferato per tutti i 50 Stati contemporaneamente imponendo il diritto all’aborto sarebbe durata in eterno. La Corte Suprema di oggi ha restituito ai singoli Stati il diritto di regolare, secondo quanto è nella coscienza dei cittadini, il diritto e la pratica dell’aborto. Non c’è alcun divieto imposto ora dal governo federale ad abortire, insomma, mentre con Roe v. Wade anche negli Stati in cui la maggioranza della gente lo giudicava un omicidio, l’aborto era consentito.
Come evolverà il modo di pensare, e la legislazione che ne deve essere il frutto, nei prossimi anni? I pro vita continueranno a battersi ovunque in accordo con le proprie convinzioni, più forti di prima per la cancellazione del diritto nazionale ad abortire. I propugnatori che vivono in Stati dove la pratica dell’aborto non era mai stata votata dalla popolazione del posto, ma era stata imposta per il diktat di Roe v. Wade venuto da Washington, avranno il diritto, ovviamente, di battersi per cercare di persuadere l’elettorato locale a fare come a New York, in California e in tutti gli altri Stati in cui la pratica è una realtà consentita e consolidata.
Nella eterna “culture war” americana, questa battaglia l’hanno insomma vinta i pro vita e i conservatori fautori di un sistema giuridico-istituzionale rispettoso della Costituzione.
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