Per anni, seguendo il diktat dell’Unione europea, l’Italia ha perseguito una politica di bassa crescita economica per evitare un aumento anche minimo dei salari nominali, limitando il deficit pubblico
Nonostante un elevatissimo deficit pubblico, l’economia italiana cresce in modo appena percettibile: è questo che rende progressivamente insostenibile il peso del debito accumulato nel tempo, nonostante il consistente taglio del rapporto sul pil nominale per via dell’inflazione, anche a causa dell’aumento dei tassi di interesse deciso dalle Banche centrali per contrastare l’inflazione che ha ingigantito gli oneri per il bilancio.
Paghiamo il conto di scelte durissime, di anni di riforme strutturali basate su una bestiale deflazione salariale che hanno determinato il risanamento dei conti con l’estero, riportando in attivo non solo la bilancia commerciale, ma per la prima volta nella Storia dell’Italia anche la posizione finanziaria netta: non potevamo reggere il duplice peso di un debito pubblico elevatissimo e di un saldo negativo sull’estero che superava il 20% del pil.
La “cura Monti”, iniziata nel 2012, è proseguita ininterrottamente fino alla crisi pandemica del biennio 2020-2021, quando sono saltati tutti i paradigmi di controllo della spesa pubblica che erano stati adottati pressochè ininterrottamente dal 1992. Nel frattempo, la politica monetaria straordinariamente espansiva condotta dalla Bce sotto la guida di Mario Draghi, e poi da Christine Lagarde fino alla crisi inflazionistica della primavera del 2021, era riuscita a contrastare solo gli effetti deflattivi sui prezzi della durissima politica di bilancio imposta in tutta Europa con il Fiscal Compact sempre a partire dal 2012.
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