In Gran Bretagna il premier Boris Johnson si è dimesso, negli Stati Uniti Joe Biden ha mentito ma è ancora in carica.
Democrazie, e bugie, a confronto. In Gran Bretagna il premier Boris Johnson si è dimesso, travolto dallo scandalo delle menzogne dette in difesa di compagni di partito con vizietti sessuali, e che gli sono costate la seggiola. Giusto: una bugia è una bugia. Negli Usa Biden ha mentito nel 2020, per difendere il figlio Hunter (ora indagato), quando ha detto ufficialmente in campagna elettorale di non aver mai parlato con Hunter dei suoi affari in Cina e Ucraina, e di non saperne nulla.
Dal famoso laptop di Hunter è uscita la verità, svelata dal solitario New York Post qualche settimana prima del voto del novembre 2020 ma coperta poi da tutti i media amici per 18 mesi. Biden, diventato presidente anche grazie a queste sue menzogne sugli affari impropri del figlio, e suoi, è dunque ora un bugiardo, verdetto dimostrato per chi è in buona fede.
Nessuno del suo partito, però, gli chiede di dimettersi per queste sue bugie. Ridicolo, e purtroppo scontato, è che per la sinistra globale e la stampa mainstream il peccato del Pinocchio conservatore inglese è giudicato mortale, mentre il peccato del Pinocchio liberal americano non esiste proprio, non è mai citato anche se la natura della bugia di Biden è squisitamente politica. L’opinione pubblica Usa però non è accecata dai giornalisti schierati a sinistra, e anche se Biden non rischia la sorte traumatica di Johnson, ciò che secondo il calendario gli resta della sua presidenza, ben 30 mesi fino a metà gennaio 2025, è un calvario annunciato. E la conclusione non sarà meno ingloriosa.
L’ultimo sondaggio New York Times/Siena College gli dà il 33% di approvazione nel paese. È un record negativo (peggio di Trump alla stessa data del suo primo, e ultimo, mandato) e poi ci sono i numeri che contano di più, visto che la intenzione dichiarata del presidente è di correre ancora: sono le rilevazioni di consensi interni al suo partito, che gli dovrebbe rinnovare la nomination nel 2024, e sono terribili. Solo il 70% dei Democratici approva il lavoro fin qui fatto dalla sua amministrazione, ma il 64% ha detto che preferisce un altro candidato DEM per il 2024. Sono percentuali imbarazzanti che peseranno negativamente sui DEM alle elezioni per il rinnovo del Congresso fra 4 mesi.
Il partito che controlla la Casa Bianca tradizionalmente perde seggi nel voto di medio-termine, percepito dagli elettori come prima occasione nazionale per giudicare l’operato del presidente dopo il primo biennio. Per dire, Bill Clinton perse 52 deputati nel 1994, Obama 63 nel 2010 e Trump una quarantina nel 2018. Al GOP basta ora conquistare 7 deputati netti per passare dai suoi attuali 211 ai 218 che danno la maggioranza (su 435). E l’ultima previsione del Fox News Power Rankings stima che i Repubblicani aumenteranno come minimo a 225 deputati, e magari fino a 255, e quindi scalzeranno Nancy Pelosi dalla posizione di Speaker della Camera.
Secondo il 20% degli elettori del sondaggio NYT/Siena College, il lavoro e l’economia sono le questioni più importanti che il paese deve affrontare, con l’inflazione e il costo della vita (15%) appena dietro, perché i prezzi stanno aumentando al ritmo più veloce da una generazione, e hanno toccato il 9,1% annuo in giugno (questo dato è stato reso pubblico dal governo 5 giorni fa, quindi è successivo al sondaggio).
Per dare il senso della performance, quando Biden era entrato alla Casa Bianca il costo annuo della vita era all’1,4%, e lui in soli 17 mesi fa lo ha moltiplicato per 6,5 volte. Si capisce che oltre il 75% degli interpellati nel sondaggio abbia definito l’economia “molto importante”, sminuendo il peso degli altri problemi sui quali Biden e i Democratici speravano di dirottare l’attenzione della gente, come l’aborto o la riforma del voto. Solo un elettore su 10 ha definito lo stato della democrazia e delle divisioni politiche nel paese come la questione più urgente, ed è circa la stessa quota che ha citato le politiche sulle armi, pur dopo le recenti sparatorie di massa.
Tra coloro che sono tipicamente in età lavorativa, tra i 18 e i 64 anni, soltanto il 6% ha affermato che l’economia è in condizione buona (5%) o eccellente (1%), mentre il 93% l’ha valutata scarsa o appena decente. Il contesto sfavorevole per i Democratici è evidenziato anche dalla domanda sulla percezione della gente di dove stia andando in generale l’America. Soltanto il 13% pensa che sia sulla strada giusta, il livello più basso dai tempi della crisi economica di 15 anni fa.
È come dire che per la quasi totalità dell’elettorato è ora di cambiare, e l’ovvio bersaglio in questo caso sono il presidente e il suo partito.
Ancora più significativo per le prospettive di rielezione di Biden è che nella fascia dei giovani Democratici sotto i 30 anni è addirittura il 94% a chiedere un candidato diverso da lui, e la loro prima motivazione principale per bocciarlo non è la sua età. Che Biden sia politicamente finito traspare da tanti segnali, ma l’articolo recente del New York Times che ha messo l’accento sui suoi 79 anni quale problema non eludibile è il bacio della morte scoccato dal suo più strenuo alleato.
Adesso il problema per i Democratici e la sinistra è gestire la debacle, a partire dalla imminente perdita del controllo del Congresso, che sarà di sicuro almeno parziale con il ribaltone alla Camera e completa se anche il Senato passerà al GOP, come è probabile. Il 2023 e il 2024 saranno due anni con un presidente anatra zoppa, e vetusta. E con la vicepresidente Kamala Harris che ha lo stesso indice di gradimento tra i votanti, se non meno, dello stesso Biden ed è il candidato Democratico che i Repubblicani sognano di sfidare alle prossime presidenziali, se Joe non sarà sulla scheda.
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