Caso Cucchi: “Calci in faccia e schiaffi”

Marco Ciotola

08/04/2019

Sono parole del testimone chiave Francesco Tedesco, carabiniere che ha assistito al pestaggio: “Mortificato per il mio silenzio fino a oggi, ma ero davanti a un muro”

Caso Cucchi: “Calci in faccia e schiaffi”

Uno schiaffo, una spinta, calci nel fondoschiena e poi in faccia. È la sostanza del racconto fatto oggi in aula da Francesco Tedesco, imputato e al medesimo tempo testimone chiave del processo per la morte di Stefano Cucchi.

Tedesco, carabiniere che ha assistito al pestaggio del giovane, ha spiegato che prima delle violenze vere e proprie c’è stato un battibecco tra Cucchi e Alessio Di Bernardo, altro carabiniere imputato.

Il gesto di uno schiaffo, forse un tentativo vero e proprio da parte di Cucchi di colpire Di Bernardo; da qui la reazione di quest’ultimo con un ceffone “violento” a Cucchi.

Segue un calcio nel sedere sferrato da Raffaele D’Alessandro, anche lui carabiniere imputato, e poi una spinta, che porta Cucchi a sbattere “violentemente” la testa contro il pavimento. Quindi un nuovo calcio, stavolta in faccia.

Il ragazzo rassicura, “sto bene, sono un pugile”, ma Tedesco conferma vederlo “stordito”, poco lucido:

“Chiedo scusa alla famiglia Cucchi, agli agenti della polizia penitenziaria imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile: denunciare i miei colleghi non era facile. In dieci anni della mia vita non avevo raccontato nulla a nessuno”.

Caso Cucchi: spinte, schiaffi e calci in faccia

Francesco Tedesco è imputato per il reato di omicidio preterintenzionale in relazione al caso Stefano Cucchi, 31enne romano arrestato e morto dopo una settimana di custodia cautelare, il 22 ottobre del 2008.

Tedesco ha fatto sì che “crollasse il muro”, così come commentò la sorella della vittima, Ilaria Cucchi, quando per la prima volta il carabiniere, coetaneo di Stefano, parlò delle violenze, a nove anni di distanza dalla morte di Cucchi.

Il pestaggio, a cui Tedesco riferisce di avere solo assistito, è opera dei colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, stizziti dalla riluttanza di Stefano a collaborare. Cucchi infatti si rifiuta di prendere le impronte digitali, manifesta ostilità nei confronti di chi l’ha tratto in arresto.

Fa il gesto di dare uno schiaffo ad Alessio Di Bernardo, forse prova veramente a darglielo. Fatto sta che quest’ultimo reagisce, lo schiaffeggia con violenza, ottiene anche l’appoggio del collega Raffaele D’Alessandro, che interviene con un calcio al fondoschiena di Cucchi. Poi la spinta e la caduta, un calcio in faccia:

“Bernardo dà uno schiaffo abbastanza violento a Stefano Cucchi. Io mi alzo per intervenire, ma mentre lo faccio D’Alessandro gli dà un calcio nel sedere, ad altezza dell’ano, e Bernardo lo spinge. Cucchi cade e batte la testa a terra, quindi D’Alessandro lo colpisce con un calcio in faccia”.

Un silenzio lungo 9 anni che - spiega Tedesco - era un silenzio di terrore, condito da minacce dei superiori e un clima sempre più teso e diffidente nei suoi confronti:

“Dire che ebbi paura è poco: ero terrorizzato. Ero solo contro un muro, come se non ci fosse nulla da fare. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza”.

In più, la linea indicata dall’Arma - segnala Tedesco - è netta, inequivocabile: “non parlare”. A commentare la testimonianza in aula di oggi la sorella della vittima, Ilaria Cucchi, che ha parlato di una verità che, a distanza di 10 anni, entra finalmente in scena.

Ha anche speso parole importanti per la lettera che il comandante dei Carabinieri, il generale Giovanni Nistri, ha inviato lo scorso mese alla famiglia Cucchi. Una lettera di scuse e di forte volontà di indagare sulla verità, che lascia intendere anche l’ipotesi di una costituzione come parte civile dell’Arma per quel che riguarda il depistaggio:

“Leggere quella lettera è stato per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi. Ora queste parole scacciano il senso di abbandono che ho vissuto in questi nove anni. Oggi finalmente posso dire che l’Arma è con me”.

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