Dicendo che non serve rimettere mano al Nadef, Conte ammette due cose: o stavano facendo falso in bilancio prima o ora tutto l’extra dei ristori sarà deficit garantito da emissioni e fondi Ue. Ovvero, debito che lascerà in dote al prossimo governo
Il trimestre precedente a quello di ingresso in recessione, solitamente porta con sé un fenomeno stravagante: l’aumento dei consumi personali. Nel mondo anglosassone, questa dinamica ha un nome apparentemente allegro ma dai risvolti in realtà inquietanti: the last hurrah. Ovvero, spendiamo ora, visto che di fronte a noi i nuvoloni sono più neri che mai e ci sarà tempo - purtroppo - per dover tirare la cinghia.
Un misto di fatalismo e rassegnazione, nulla di scientifico. Ma puntuale, troppo puntuale per essere affidato unicamente alla categoria del caso ricorrente. Bene, quello lanciato oggi da Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’ultimo Dpcm è stato il più classico degli annunci di last hurrah.
Questa volta, però, siamo di fronte all’unicum della trasposizione istituzionale e ufficiale di ciò che solitamente si palesa soltanto come un riflesso quasi pavloviano dei cittadini. Una cosa appare certa, quantomeno in base alla sicurezza mostrata dal premier durante e dopo il suo discorso: i soldi dei ristori arriveranno. Puntuali. Sui conti correnti, direttamente dall’Agenzia delle entrate. E, stiamo pure certi, arriveranno a pioggia.
Ed ecco il lato davvero inquietante del punto di snodo raggiunto con questa seconda, drastica restrizione dell’attività economica del Paese. Il last hurrah rischia seriamente non solo di configurarsi come un assetto strutturale di spesa dalle dimensioni monstre che andrà a gravare pesantemente sullo stock di debito consolidato e sulla libertà d’azione dei governi che si succederanno a questo ma, soprattutto, pare atto tanto terminale quanto prodromico al commissariamento del Paese.
Il quale, giova sottolinearlo, è già in atto. Perché quando il tuo spread dipende unicamente dall’operatività della Bce e non dalle scelte economiche poste in essere, la tua vera o presunta sovranità decisionale è già pari a zero.
Nessuna revisione della Nadef?
Qui però la questione si aggrava, quantomeno a livello di profondità del salto nel buio in atto. Il premier è stato chiaro: nessun ulteriore scostamento di bilancio per finanziare i ristori. Ma, soprattutto, nessuna necessità di revisione della Nadef relativa alla Manovra economica.
Ora, qualcosa non torna. O sfruttando l’emotività del momento il primo ministro ha voluto ammettere al Paese una palese configurazione di falso in bilancio rispetto al Def appena presentato, sperando magari che nessuno se ne accorgesse oppure le casse dello Stato sono meno vuote di quanto si voglia credere. O far credere. A chi? Magari all’Europa.
La stessa Europa che, con un uno-due che avrebbe steso un cavallo, a ridosso del fine settimana che va concludendosi ha prima ammesso ritardi strutturali che sposteranno alla seconda metà del 2021 l’erogazione dei primi fondi legati al Recovery Fund e poi messo in scena una sorta di funerale dell’intero pacchetto legato al piano Next Generation attraverso una bocciatura su veti incrociati nel corso della plenaria all’Europarlamento.
Di fatto, i mitologici 209 miliardi non esistono. Se non sulla carta e nella retorica ormai stantia dell’estate. Operativamente parlando, i Paesi europei possono contare solo su tre veicoli di finanziamento: fondi Bei, Sure per il sostegno all’occupazione e Mes. L’Italia ha sfruttato i primi due e, finora, sdegnosamente rifiutato il terzo.
Segnale che alcuni fra i Paesi cosiddetti frugali hanno immediatamente tradotto in una strana ambiguità di fondo: perché Roma si è battuta come un leone per ottenere il massimo a livello di sostegno europeo e poi non accede agli unici fondi di un certo controvalore che hanno disponibilità immediata?
Di fatto, il dubbio è che i conti che l’Italia presenta abbiano quantomeno una doppia chiave di lettura: ufficiosa e ufficiale. E la mossa di Giuseppe Conte rispetto al finanziamento dei ristori, di fatto, pare una conferma ulteriore a questo dilemma.
Dal Mef filtra che i primi finanziamenti saranno garantiti da fondi non utilizzati per la prima emergenza Covid: forse è questa la ragione per cui siamo precipitati con questa velocità e gravità nella seconda, verrebbe da chiedersi? E temo se lo chiederanno anche a Bruxelles. La seconda ipotesi è che le casse piene del Tesoro, stante le aste da record degli ultimi tempi, abbiano ingolosito la maggioranza, la quale starebbe operando in base a un azzardo di fondo: muoversi in fatto di conti pubblici come se il sostegno della Bce ai mercati obbligazionari sovrani fosse eterno.
Così non è. E se anche il 10 dicembre il board dell’Eurotower dovesse davvero annunciare altri 500 miliardi di disponibilità e altri sei mesi di arco temporale di durata per il Pepp (passando dal 30 giugno al 31 dicembre 2021 come deadline), la questione non cambia: un Paese come il nostro, raggiunta la ratio debito/Pil che toccheremo a fine anno, ha solo due alternative. Operare pressoché da subito - quando la fase emergenziale da pandemia sarà finita - con una poderosa operazione di riduzione oppure prepararsi alla ristrutturazione. Tertium non datur, questa volta.
La monetizzazione del debito
Qui non siamo più al 2011. All’epoca, di fatto, la Bce ancora doveva sfoderare il suo bazooka e la crisi Lehman ancora garantiva un tesoretto di «ingenuità» dei mercati di fronte alle mosse emergenziali delle Banche centrali. Ora, dopo 9 anni di Qe di fatto perenne e sistemico, tutto è dato per scontato: per stupire, occorrerebbero davvero strumenti da mago.
E la Bundesbank, da settimane impegnata nel sottolineare la temporaneità e l’eccezionalità del Pepp, non lo consentirà. Perché il Covid sta diventando la scorciatoia per la monetizzazione del debito e il finanziamento diretto dei deficit sovrani, più che il cavallo di Troia per arrivare agli eurobond: un Rubicone che per Francoforte - sponda Buba - rappresenta un totem assoluto, un’altra Weimar.
Il grafico di seguito mostra come oggi la liquidità in eccesso nell’eurozona sia ai livelli massimi record: 3,2 trilioni di euro alla disperata ricerca di essere investiti con un minimo di rendimento, stante il regime di compressione dei premi di rischio innescato proprio dalla Bce.
Fonte grafico: Bloomberg
Di fatto, a Roma interpretano questo ambiente finanziario come un qualcosa destinato a durare in eterno, poiché la Bce continuerà a stampare denaro a ciclo continuo e che cercherà sempre più disperatamente Btp da acquistare, persino con rendimenti radenti lo 0% sul decennale. Come, d’altronde, accade già per Grecia e Spagna.
Perché, dunque, ricorrere a scostamenti di bilancio o interventi fiscali tipo patrimoniale e o prelievi alla Giuliano Amato per finanziare i ristori, di fatto pietre tombali elettorali? Come un criceto, il denaro a costo zero della Bce continuerà a girare sulla ruota della stamperia da emergenza perenne. Non è così. E, temo, ce ne accorgeremo presto.
Lacrime e sangue o ristrutturazione?
A quel punto, subentreranno soltanto le due ipotesi prefigurate prima: o un programma di lacrime e sangue per ridurre le ratio di debito e deficit o l’inevitabile, terminale rimessa in discussione di quello stock attraverso una ristrutturazione.
Ristrutturazione anticipata, però, non da un last hurrah degli investitori, bensì il contrario: una potenziale sell-off, spinta anche da un sempre crescente redenomination risk su quella carta a rischio haircut. E con le nostre banche che, a far data allo scorso 30 settembre, hanno in pancia il record assoluto di 520 miliardi di controvalore in titoli di Stato, quale possa essere l’epilogo sistemico appare intuitivo. Drammaticamente intuitivo.
Sarà per questo che, da più parti, si invoca subito un governo di unità nazionale per gestire la seconda ondata di crisi? Sarà per questo che Standard&Poor’s, la quale non più tardi di un mese fa ha tagliato l’outlook della Spagna a causa dei dati macro e del rischio di nuovi lockdown, ha invece utlizzato la carota con l’Italia, addirittura promuovendo le nostre prospettive di crescita, in pieno aumento esponenziale dei contagi?
Giuseppe Conte ha annunciato che le misure del nuovo Dpcm dureranno fino al 24 novembre. Poco prima, il premier spagnolo Pedro Sanchez, comunicando anch’egli ai suoi connazionali le nuove restrizioni, ha prolungato lo stato di emergenza per il Paese fino a tutto il maggio 2021: perché questa discrepanza, a fronte di situazioni sanitarie non troppo differenti e di dinamiche di debito che ci vedono ormai accomunati come gemelli siamesi?
La strada per l’arrivo a Palazzo Chigi del cavaliere bianco si è di colpo spianata, nonostante il piglio decisionista mostrato oggi del premier volesse far credere l’esatto contrario?
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