Coronavirus, in Germania il primo caso europeo

Marco Ciotola

05/03/2020

A gennaio il primo focolaio europeo è arrivato dalla Germania. Lo assicura uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine

Coronavirus, in Germania il primo caso europeo

Si è verificato in Germania il primo caso europeo di coronavirus. Lo assicura il New England Journal of Medicine, che in uno studio diffuso in mattinata parla di un’epidemia partita da Monaco di Baviera lo scorso gennaio.

Proprio da lì il contagio si sarebbe propagato in altri Paesi, portando a registrare i numeri in crescita di queste ultime ore.
Così anche l’arrivo in Italia, a partire dalle regioni del Nord, sarebbe da ricondurre alla persona contagiata di Monaco.

A confermarlo, oltre alla celebre rivista britannica, è la mappa genetica diffusa dal sito di settore Nextstrain, che ricostruisce i movimenti del virus individuando un primo focolaio europeo in Germania.

L’uomo avrebbe contagiato diversi colleghi, in una catena propagatasi poi fino alla diffusione a cui siamo di fronte ora.

Coronavirus, in Germania il primo caso europeo

Nel report del New England Journal of Medicine - che trovate in calce a questo articolo per intero - il paziente 1 viene individuato in un uomo d’affari tedesco di 33 anni e in buona salute.

Lo scorso 24 gennaio avverte mal di gola, brividi e mialgie, sviluppando il giorno seguente una febbre a 39,1 ° C, accompagnata da una forte tosse. Il giorno seguente migliora e rientra al lavoro il 27 gennaio.

Prima dei suddetti sintomi, l’uomo aveva partecipato a degli incontri con un partner commerciale cinese presso la sede della sua compagnia vicino Monaco di Baviera, tra il 20 e 21 gennaio.

Accertato il contagio, informa la sua azienda, circostanza che fa partire il tracciamento dei contatti abbastanza presto. Eppure, il contagio si propaga.
Il 28 gennaio altri tre dipendenti della compagnia risultano positivi al COVID-19.

Da qui, attraverso una lunga concatenazione, l’arrivo in Italia fino al focolaio di Codogno del 21 febbraio.

Di seguito l’articolo completo del New England Journal of Medicine:

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