Dove finiscono i vestiti usati che lasciamo nei cassoni gialli? Nonostante alcune piccole e oneste realtà, alcune inchieste hanno svelato legami con la criminalità organizzata.
Lasciare i propri vestiti usati nei cassoni gialli è un gesto che molti cittadini compiono con l’intento di aiutare le persone meno fortunate o di contribuire alla sostenibilità ambientale. Peccato però che non tutti gli abiti che finiscono in questi contenitori arrivino a destinazione.
Dal 1 gennaio 2022 in Italia è scattato l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili, anticipando la normativa europea che prevede l’attivazione della raccolta separata di questo tipo di rifiuto a partire dal 2025.
I cassonetti per riciclare i vestiti usati in realtà esistono da più di vent’anni sul territorio italiano e hanno come obiettivi quelli di ridurre i rifiuti tessili e finanziare progetti di solidarietà, creando nuove opportunità lavorative; tuttavia anche dietro essi possono nascondersi verità poco gradevoli.
Se infatti, esistono realtà virtuose come Corertex, a Prato, che gestiscono in modo trasparente la raccolta e il riciclo dei tessuti, non mancano le ombre in questo settore. In molte grandi città italiane, infatti, sono emerse infiltrazioni della criminalità organizzata nel giro della raccolta dei vestiti usati, come rivelato da alcuni reportage.
Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla filiera e che fine fanno (davvero) i vestiti nei cassoni gialli.
Come funziona la filiera del riciclo dei vestiti nei cassoni gialli?
La raccolta degli abiti usati nei cassonetti gialli segue una filiera regolamentata, che coinvolge diversi attori e che potremmo suddividere comodamente in 4 step:
- Raccolta: I Comuni incaricano aziende municipalizzate di raccogliere i rifiuti domestici, inclusi i tessili, senza trattarsi di donazioni.
- Esternalizzazione: Le aziende municipalizzate affidano il servizio di raccolta a cooperative sociali (in maggioranza) che impiegano personale svantaggiato, come persone con disabilità o ex detenuti.
- Cernita e Tracciabilità: Le cooperative trasportano i rifiuti tessili agli impianti di cernita autorizzati, dove avviene la separazione dei materiali riutilizzabili e riciclabili. I rifiuti sono pesati e tracciati, e le cooperative sociali vengono remunerate per la vendita del materiale, con un guadagno che varia tra 0,18€ e 0,35€ per kg.
- Selezione e Destinazione: I rifiuti vengono separati in tre categorie: il 40% è destinato al riuso (venduto a circa 0,80€ per kg), il 55% al riciclo (venduto a 0,01€ per kg), e il restante 5% è smaltito, con un costo di -0,35€ per kg. Il processo genera una piccola percentuale di guadagni rispetto al totale del materiale trattato.
Nonostante la struttura normativa e le finalità dichiarate, sono emerse in passato falle nel sistema, come dimostrato da un’indagine aperta nel 2019 che ha dimostrato come in metropoli, quali Milano e Roma, non sia facile mantenere il controllo sulla filiera, consentendo infiltrazioni criminali.
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Il lato oscuro della raccolta tessile: criminalità organizzata e mercati grigi
Un’indagine condotta a Milano ormai 5 anni fa, nel 2019, ha rivelato il lato oscuro della filiera tessile. Monitorando un capo d’abbigliamento con un GPS, è emerso che molti abiti raccolti nei cassonetti gialli finiscono in una rete di compravendita poco trasparente.
Invece di raggiungere mercati solidali, i capi vengono spesso venduti a prezzi bassissimi, creando un business redditizio per aziende legate alla criminalità organizzata. Alcuni di questi vestiti attraversano molteplici passaggi, perdendo ogni legame con il loro scopo originario.
Il guadagno di queste aziende non si limita alla rivendita. Spesso, i capi non riutilizzabili vengono smaltiti illegalmente in aree già afflitte da emergenze ambientali, come la “Terra dei Fuochi” in Campania. Qui, i rifiuti tessili alimentano il traffico di materiali non biodegradabili, con gravi conseguenze per l’ecosistema e la salute delle comunità locali.
La mancanza di controlli nazionali rigorosi rende il sistema vulnerabile a infiltrazioni criminali, trasformando un’idea di solidarietà in un business che antepone il profitto all’etica. Questo modello non solo compromette l’ambiente, ma mina la fiducia dei cittadini, che donano i propri abiti convinti di fare del bene. La trasparenza e la regolamentazione sono elementi chiave per arginare questi fenomeni, ma la strada è ancora lunga.
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Un circolo virtuoso: l’esempio di aziende etiche
Nonostante le criticità, esistono realtà che dimostrano come la gestione dei rifiuti tessili possa seguire un modello virtuoso. Alcune cooperative sociali e aziende etiche stanno implementando processi di economia circolare basati su trasparenza, sostenibilità e inclusione sociale. In queste filiere, gli abiti raccolti vengono accuratamente selezionati e riutilizzati, garantendo che il ricavato venga reinvestito in progetti benefici.
Un esempio significativo è rappresentato dai consorzi come Corertex, che promuovono una corretta informazione e tracciabilità dei flussi tessili. Grazie a un sistema di cernita certificato, gli abiti riutilizzabili vengono venduti a prezzi equi, mentre il riciclo dei tessuti è ottimizzato per ridurre l’impatto ambientale. Inoltre, il coinvolgimento di personale svantaggiato nelle cooperative sociali rappresenta un elemento di inclusione fondamentale, trasformando un problema ambientale in un’opportunità sociale.
Questi modelli dimostrano che il riciclo tessile può essere sostenibile e redditizio senza compromettere l’etica. Per consolidare tali pratiche, è necessario aumentare la consapevolezza dei cittadini e incentivare normative più stringenti. Una corretta informazione sul funzionamento della filiera è il primo passo per contrastare i mercati grigi e garantire che ogni abito raccolto contribuisca realmente a un impatto positivo.
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