Nonostante Matteo Salvini ci abbia messo la faccia, il risultato deludente della Lega non è solo colpa sua.
È indubbio che il risultato della Lega non possa soddisfare i vertici leghisti e che inevitabilmente il segretario, che mai si è sottratto a oneri e onori della sua carica, dovrà rendere conto dei suoi errori e di questo inaspettato risultato in negativo. La mattina dopo il voto Matteo Salvini ha, come al solito, messo la faccia e ammesso il deludente risultato e aperto una discussione franca con tutti i vertici leghisti.
Subito si sono alzate le voci candide di ex leghisti di peso, uno su tutti Roberto Maroni, ex ministro degli Interni ed ex governatore della Lombardia che ha immediatamente gettato la croce addosso al segretario, ribadendo la necessità di cambiare leaderhisp nel partito.
A suo dire è tempo di aprire una nuova fase con un nuovo leader. A queste si sono unite le voci critiche del governatore Zaia (a cui però bisognerebbe anche chiedere conto forse del perché proprio in Veneto si sia verificata una della maggiori emorragie di voti della Lega a favore di Fratelli d’Italia), che richiesto chiarimenti immediati con messaggi anche criptici, come è nel suo stile d’ altra parte “Il voto degli elettori va rispettato – ha infatti detto Luca Zaia – perché, come diceva Rousseau nel suo contratto sociale, il popolo ti delega a rappresentarlo, quando non lo rappresenti più ti toglie la delega. È innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo trovando semplici giustificazioni”.
Ma molti altri come l’eurodeputato trevigiano Da Re hanno subito chiesto la testa del segretario. E pensare che solo due anni o poco più, tutti erano a festeggiare il clamoroso risultato ottenuto alle europee dalla Lega, che aveva superato il 34% dei consensi.
L’inizio della crisi e la caduta del governo gialloverde
Da allora qualcosa si è rotto, inutile negarlo e molti pensano che quel insperato successo deve aver forse troppo rassicurato Salvini, che pochi mesi dopo ha deciso per la caduta del governo gialloverde, dando l’inizio a una continua e costante perdita di consensi, culminata nel deludente risultato conseguito il 25 settembre. Certamente gli errori del segretario ci sono stati e questo nessuno lo nega, ma vero è che forse nessuno della classe dirigente leghista può addurre scuse in tutte le principali decisioni prese certamente dal segretario in completa autonomia, ma anche col consenso più o meno tacito di tutta la classe dirigente.
L’addio al governo gialloverde era una richiesta pervenuta da tutti i vertici leghisti, con Giorgetti in testa, già due mesi prima almeno. Solo la grande pazienza del segretario e il tentativo di arrivare comunque a una mediazione ha impedito che la crisi venisse innescata prima. La decisione di entrare nel governo Draghi, che ormai secondo quasi tutti gli osservatori è stato il definitivo colpo finale al consenso leghista.
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È stata una decisione che Matteo Salvini ha dovuto accettare quasi a malincuore. Forse nessuno ricorda come tutti i governatori, capeggiati sempre dal solito Giorgetti non vedessero l’ora di entrare nel governo Draghi, mentre Salvini, con alcuni suoi fedelissimi, Massimiliano Romeo capogruppo al senato e Riccardo Molinari, capogruppo alla camera su tutti, fosse molto più prudente in tal senso, convinto, come poi effettivamente è andata, che l’ingresso in una simile ammucchiata non avrebbe fatto altro che far perdere consensi alla Lega a vantaggio di Fratelli d’Italia, rimasta all’opposizione. Lo stesso Molinari ieri ha ribadito con forza questo concetto dicendo senza mezzi termini una sacrosanta verità “Basta critiche al segretario. Lui nel governo Draghi non voleva entrare”.
Mentre ancora adesso si ricorda l’articolato e pungente discorso proprio di Massimiliano Romeo al Senato, in occasione della discussione sulla fiducia al governo Draghi, nel luglio scorso. Alcuni leghisti, quando si è sparsa la voce dell’esclusione dal parlamento di Umberto Bossi (riammesso poi dopo aver rettificato un errore commesso dal Viminale), quando è stato proprio Salvini a volere con forza che il vecchio fondatore della lega fosse candidato in un collegio sicuro.
Insomma la riconoscenza nella vita come in politica è sicuramente una merce rara, ma quando si parla di Salvini evidentemente le cose sembrano se possibile ulteriormente caricarsi di motivazioni che esulano dalla pura disamina dei fatti, forse soprattutto anche a causa della sua grande abilità: ha portato un partito da poco più del 4% a oltre il 34% in pochissimi anni. Ecco allora che forse da parte di tutti occorrerebbe maggiore prudenza, onestà intellettuale, umiltà e riconoscenza. Ma si come di suol dire è sempre vero il detto che recita che le vittorie hanno molti padri, mentre le sconfitte sono orfane.
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