Federico Caffè, una “presenza” più viva che mai

Francesco Maggio

12 Aprile 2022 - 17:52

35 anni fa, Federico Caffè, usciva dalla sua casa per non fare più ritorno. Tante le ipotesi e le congetture, ma di lui si sono perse per sempre le tracce.

Federico Caffè, una “presenza” più viva che mai

Nella notte tra il 14 e il 15 aprile di 35 anni fa, Federico Caffè, 73 anni da poco compiuti, usciva dalla sua casa romana in via Alberto Cadlolo, lasciando sul comodino occhiali, orologio, documenti e altri effetti personali. Non vi avrebbe più fatto ritorno. Di lui si sarebbero perse per sempre le tracce e, l’8 agosto del 1998, il Tribunale di Roma ne dichiarerà la morte presunta.
Perché un simile gesto da parte di uno degli economisti più illustri, autorevoli, brillanti che l’Italia abbia mai avuto? Se lo sono chiesti in tanti. Ma una risposta certa non è mai arrivata. Verranno fatte solo congetture.

L’essere diventato ormai un professore fuori ruolo della facoltà di economia della Sapienza gli aveva suscitato un senso di profonda prostrazione perché non avrebbe potuto più insegnare ai suoi amati studenti? Il dolore per la tragica dipartita di alcuni dei suoi allievi più cari come Ezio Tarantelli, ucciso dalle brigate rosse nel 1985 e Fausto Vicarelli, morto nel 1986, in un incidente stradale era diventato insopportabile? Lo sconforto per la malattia del fratello Alfonso lo attanagliava oltremodo? Il progressivo “rattrappimento” delle idee keynesiane, di cui fu uno dei massimi studiosi e propugnatori, a fronte dell’affermarsi su larga scala del liberismo alla Reagan lo aveva profondamente deluso?

Tante supposizioni, tutte fondate, ma nessuna meno plausibile di altre.
Il suo rimarrà quindi un mistero fitto (da alcuni assimilato alla scomparsa per il rifiuto della scienza del fisico Ettore Majorana di cui Caffè, prima di “smaterializzarsi”, stava leggendo proprio il libro a lui dedicato da Leonardo Sciascia “La scomparsa di Majorana”) per la cui soluzione si prodigheranno in tanti. Tra questi, il grande scrittore Ermanno Rea che scrisse, in proposito, un libro stupendo intitolato “L’ultima lezione” (Feltrinelli).

Tra le numerose ipotesi formulate c’è chi sostiene che si sia ritirato in un convento. Tesi corroborata da Bruno Amoroso, a lungo docente in Danimarca, tra gli allievi prediletti di Caffè, con il quale ebbe un lungo epistolario e che dichiarò (al Sole 24 Ore del 27 novembre 2016) di averlo visto e frequentato anche dopo la sua scomparsa. Ma il mistero rimarrà sempre. Mentre non ci saranno mai dubbi sul fatto che Caffè sia stato un vero fuoriclasse. Da molteplici punti di vista.

Come economista: per i suoi contributi alla lotta alle disuguaglianze, alla critica al capitalismo selvaggio (amava ripetere una frase di William Kapp secondo cui «il capitalismo si regge su un insieme di costi sociali non pagati»), alla finanza speculativa borsistica (bollando i suoi artefici come «praticoni pittoreschi»), alla costruzione di un welfare a misura d’uomo, alla centralità della persona nel discorso economico.

Come professore universitario: poliedrico, fautore di un approccio multidisciplinare dell’insegnamento dell’economia, contrario a quella «sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità degli economisti che ripropongono, in linguaggi inutilmente complicati, idee vecchie a fronte di problemi nuovi», fu molto amato dai suoi studenti che facevano a gara per potersi laureare con lui (furono più di 1200 i suoi laureati nel corso della sua vita accademica) e, tra questi, ci riuscirono nomi divenuti poi particolarmente “famosi” come Mario Draghi, Ignazio Visco, Guido Rey, Marcello De Cecco, Giorgio Ruffolo, Enrico Giovannini e tanti altri.

Come editorialista: dotato di una penna chiara, scorrevole, “tagliente”, scrisse sulle principali testate italiane (i suoi scritti venivano affettuosamente chiamati “I fondi di Caffè”) ma è con il Manifesto che ebbe la consuetudine più lunga perché, sosteneva, era «l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo, condizione ideale per un uomo libero». Aggiungo che non solo non veniva pagato dal Manifesto ma spesso lo sosteneva economicamente, accompagnando la donazione una volta, nel 1982, con un biglietto a Valentino Parlato che era già esso stesso un piccolo editoriale: «Caro Parlato, faccio avere a te la quota per la vostra nuova impresa per mantenere in vita il Manifesto. Mi dispiace di non potere di più. Ma come ci insegnavano un tempo non sono un manzoniano che tiri quattro paghe per il lesso. Le qualifiche per tirare quattro paghe cambiano ma il fenomeno resta».

Proprio sul Manifesto scrisse (il 29 gennaio del 1982) un articolo che poi è diventato una sorta di manifesto (mi si perdoni il gioco di parole) del suo pensiero, intitolato “La solitudine del riformista”. Qui a un certo punto afferma: «Il riformista in fondo non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge. È agevole contrapporgli che, sin quando non cambi il “sistema” le sue innovazioni miglioratrici non fanno che tappare buchi e puntellare un edificio che non cessa, per questo, di essere vetusto e pieno di crepe (o contraddizioni). Egli è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un sistema di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito di apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili “in vacuo”».
Ad averne oggi di riformisti (e di economisti) così.

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