Flat tax al 15% o al 23%, quanto costa la proposta di Salvini, Berlusconi e Meloni: si può fare davvero?

Giacomo Andreoli

08/08/2022

Forza Italia e Lega, nonostante qualche timore da parte di Fratelli d’Italia, continuano a proporre un’unica aliquota Irpef al 15% o al 23%: è economicamente sostenibile?

Flat tax al 15% o al 23%, quanto costa la proposta di Salvini, Berlusconi e Meloni: si può fare davvero?

Una sola aliquota Irpef al 15% o al 23%: Forza Italia e Lega, in vista delle prossime elezioni del 25 settembre, sono tornati a proporre la flat tax. La tassa unica è un cavallo di battaglia storico del centrodestra, che si ispira a una ventina di Paesi nel mondo che hanno adottato questa soluzione fiscale con l’obiettivo dichiarato di far pagare meno, ma far pagare tutti.

Più fredda sulla proposta è Fratelli d’Italia, con la leader Giorgia Meloni che ragiona già da presidente del Consiglio e ha il timore di non avere sufficiente spazio di bilancio per una riforma del genere. Per questo propone una «tassa unica incrementale», cioè un’aliquota unica sugli aumenti di ricavo o reddito.

Quello delle coperture è infatti il problema principale di questa misura, che rischia di ridurre fortemente le entrate dello Stato con conseguenti necessari tagli alla spesa pubblica. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le proposte in campo nel centrodestra, in quali paesi esiste la tassa unica e se è davvero sostenibile per una nazione come l’Italia.

Flat tax, la proposta di Berlusconi

Con l’ultima revisione dell’Irpef realizzata dal governo Draghi esistono in Italia quattro scaglioni, che variano in base al reddito annuo: fino a 15mila euro la tassa sui redditi è al 23%, da 15 a 28mila euro al 25%, da 28 a 50mila euro al 35%, oltre i 50 mila al 43%.

Silvio Berlusconi propone di inserire un’unica aliquota al 23%, rafforzando contemporaneamente l’Agenzia delle Entrate per punire ancora di più chi non paga. Secondo i primi calcoli così la misura costerebbe dai 20 ai 30 miliardi di euro ogni anno: una vera e propria finanziaria ogni dodici mesi.

Tassa unica al 15% per i dipendenti: l’idea di Salvini

Ancor più difficile sarebbe portare la tassa unica al 15% per tutti: nel 2019, quando l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini voleva farla approvare al governo gialloverde, si stimò una spesa annua tra i 50 e i 60 miliardi di euro. Secondo la Lega, invece, si sarebbe potuto fare con circa 15 miliardi, ma ora il partito sembra rendersi conto della difficoltà di replicare una proposta del genere.

Salvini, infatti, propone oggi di partire estendendo l’attuale regime forfettario, valido per alcune partite Iva (che pagano il 15% di tasse per redditi entro i 65mila euro annui), anche ai lavoratori dipendenti. In tutto si tratta di 2 milioni di persone. Il leader del Carroccio vorrebbe applicare questa flat tax anche ai pensionati, probabilmente entro la stessa fascia di reddito annuale. Così ci si potrebbe avvicinare più facilmente alla previsione dei 15 miliardi fatta nel 2019 dalla segreteria di Salvini.

Cos’è la flat tax incrementale

La proposta di Meloni è quella che costerebbe meno per le casse dello Stato. La sua «flat tax incrementale» sarebbe valida sull’aumento dei redditi dichiarati. Per fare un esempio: se nell’anno X ho dichiarato 50mila euro e nell’anno successivo dichiaro 55.000 euro, sui 5.000 euro in più sarà applicata la flat tax al 15% o 23%.

La misura sarebbe sostanzialmente a costo zero, nel senso che non ridurrebbe le entrate attuali, ma garantirebbe aumenti di entrate minori rispetto a quelli che ci sarebbero con il sistema di oggi.

In quali Paesi è presente la flat tax

Attualmente la tassa unica è presente in questi paesi e regioni del mondo: Abcasia (10%), Belize (25%), Bielorussia (13%), Bolivia (13%), Bosnia ed Erzegovina (10%), Bulgaria (10%), Estonia (20%), Georgia (20%) Groenlandia (da 36% a 44% a seconda della municipalità), Guernsey (20%), Guyana (33.33%), Jersey (20%), Kazakistan (10%) Kirghizistan (10%), Macedonia (10%), Madagascar (20%), Mongolia (10%), Ossezia del sud (12%), Romania (10%), Russia (13%), Seychelles (15%), Transnistria (10%)
Turkmenistan (10%), Ungheria (15%).

Il modello è quindi presente in alcuni piccoli stati, alcuni paradisi fiscali e in molti paesi dell’Europa centro-orientale che nel ’900 facevano parte dell’Unione Sovietica. La domanda fondamentale è: la riforma è adattabile ai paesi occidentali?

La spesa pubblica e sociale, dalla sanità alla scuola, passando per le misure di sostegno al reddito, le pensioni o gli assegni per disoccupati e inadempienti, è molto più alta nei Paesi più sviluppati. Nell’Est Europa, ad esempio, le entrate hanno un’incidenza sul Pil inferiore in media di 10 punti rispetto ai Paesi dell’Ovest. E lo scenario, in Paesi come l’Italia dove l’invecchiamento della popolazione è destinato a continuare, è quello di una spesa sociale che si farà crescente.

I Paesi che hanno adottato la tassa unica

Il rischio, quindi, è che se non si trovano sufficienti coperture, bisogna tagliare pesantemente la spesa sociale. Per evitare di perdere troppe risorse, alcuni Paesi hanno adottato l’aliquota unica e poi hanno fatto marcia indietro. La Serbia è passata dalla flat tax al 14% a tre aliquote: 10%-20%-35%, la Slovacchia da 19% a 19%-25%, la Repubblica Ceca da 15% a 15%-22%, l’Albania da 10% a 10%-25%, la Lettonia dal 25% a tre aliquote (20%-23%-31.4%).

Il rischio incostituzionalità

Oltre al problema risorse c’è poi in Italia il rischio incostituzionalità. La flat tax, infatti, potrebbe continuare a essere accompagnata da detrazioni e deduzioni, ma rischierebbe di non rispettare il principio di eguaglianza sostanziale, con un’imposta unica per cittadini che versano in situazioni economiche diverse. Si potrebbero così violare gli articoli 3 e 53 della Carta, con possibile giudizio negativo della Corte costituzionale.

La flat tax in Ungheria

Una delle più forti critiche che viene fatta alla flat tax, infine, è il rischio di aumentare la forbice delle disuguaglianze. La tassa unica, infatti, lascerebbe praticamente inalterata la situazione fiscale delle classi socio-economiche medio-basse, aiutando fortemente solo chi ha redditi superiori ai 28mila euro annui.

Le disuguaglianze, in effetti, sono cresciute negli ultimi anni nell’Ungheria di Viktor Orbán, il Paese che più viene proposto dal centrodestra come “modello virtuoso” di applicazione della flat tax. Il cosiddetto Orbanomics, cioè il mix di ricette economiche per metà liberiste e per metà assistenziali applicato dal 2010 a Budapest e dintorni, vede al centro proprio la tassa unica: 9% per le società e 15% per le persone fisiche.

L’aumento delle disuguaglianze

Il Paese è cresciuto in maniera importante nell’ultima decade, ma per lo più grazie agli ingenti fondi europei a fronte di pochi soldi versati a Bruxelles. Secondo i dati della Banca Mondiale, dal 2010 al 2017 il 20% più ricco della popolazione è passato dal possedere il 37,7% del reddito totale ungherese al 38,5% (con aumento maggiore per la metà ancora più facoltosa, che è passata dal 23,1% al 23,9%).

Nello stesso periodo il 20% più povero è passato dall’8,20% al 7,9% (con la metà ancora meno facoltosa passata dal 3,2% al 3%, ai minimi dalla caduta del regime sovietico). Tutto ciò ha portato l’indice internazionale di disuguaglianza Gini a salire da 29,4 a 30,6.

Il dato più preoccupante è però quello calcolato dalla Commissione europea, secondo cui la percentuale di lavoratori ungheresi dai 18 ai 64 anni a rischio povertà (con uno stipendio inferiore a 300 euro al mese) nel 2017 era del 10,2%, sopra la media UE del 9,6% e con un aumento quasi del doppio rispetto al 2012 (quanto era al 5,7%). In tutto ciò si è ridotta la percentuale di Pil investita nella scuola e nella sanità (con un rialzo solo dopo la prima ondata di Covid).

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