In Germania le prime chiusure eccellenti. Neanche il 40% della CO2 necessaria è oggi disponibile sul mercato. Le uniche che si salvano sono quelle artigianali.
Brutte notizie per gli amanti della birra. E anche in questo caso la responsabilità ricade in parte sulla guerra e di conseguenza sulla crisi energetica che, fra le altre cose, sta limitando la produzione di acido carbonico, indispensabile per la grande distribuzione di birra e bevande gassate.
In Italia si segnalano già le prime chiusure. Dopo Sanpellegrino, che ha messo in ferie i dipendenti, qualche giorno fa è toccata a Menabrea, che ha sospeso l’attività negli stabilimenti di Biella. Per gli altri marchi è solo questione di tempo, perché il problema è generale e collettivo, inaggirabile: la carenza di biossido di carbonio, o anidride carbonica necessaria a “creare” le bollicine nei liquidi, ha messo in preallerta nomi come Carlsberg, Delirium Tremens in Belgio e un po’ tutta la celeberrima filiera tedesca.
La Germania taglia la produzione
Complice primo il gas, usato per la produzione di acido carbonico, i prezzi dell’energia e le difficoltà di approvvigionamento che si trascinano da mesi ancora a causa del Covid, ecco che le principali aziende chimiche hanno tagliato attività e forniture, lasciando nei guai le aziende alimentari. Con conseguenze prevedibili: in Germania, per esempio, la produzione è già stata ridimensionata al ribasso, come conferma Tobias Bielenstein, portavoce della cooperativa tedesca Fountain. «Se questa situazione continuerà, arriveremo al culmine. Siamo estremamente preoccupati. Una cosa del genere non si era mai vista prima d’ora».
Neanche il 40% di quel che serve
In ansia anche Holger Eichele, amministratore delegato dell’associazione tedesca dei birrai: neanche il 40% della CO2 necessaria risulta disponibile e il fallimento è uno spettro sempre più incombente per molte aziende. Molte sono già ferme, ha dichiarato Eichele al Financial Times, mentre secondo Bloomberg il produttore di Delirium Tremens, in Belgio, starebbe valutando una sospensione: la prima in cento anni di attività. Calsberg, in Polonia, lo va dicendo addirittura da agosto: non ce la si fa più.
La rivincita dei piccoli
Gli unici che si salvano sono i piccoli, che continuano a passarsela decorosamente. I grandi birrifici, che si servono dell’acido carbonico anche per «pre-tensionare» serbatoi, bottiglie e fusti ed evitare che il contenuto venga deteriorato dal contatto con l’aria, hanno bisogno di comprare da terzi, mentre i produttori artigianali riescono ancora a farsi bastare le bollicine che derivano da un naturale processo di fermentazione.
E gli svizzeri?
Può tirare un sospiro di sollievo il Canton Ticino, ricchissimo di ottimi micro-birrifici. Come spiega Piero Mannino su Moneymag.ch, titolare del birrificio San Martino a Bioggio, «la CO2 viene prodotta naturalmente durante il processo di fermentazione e non accade quasi mai un ulteriore arricchimento carbonico durante il ciclo produttivo, salvo problemi di produzione che nessuno spera mai di avere». Anche se poi, come si suol dire, non è tutto oro quello che luccica: «Siamo alle prese con aumenti di ogni tipo: dal vetro per le bottiglie al cartone per gli imballaggi».
A rischio chiusura i pub inglesi
La carenza di CO2 minaccia anche l’intera industria alimentare, dal momento che l’acido carbonico viene impiegato anche per abbattere le temperature degli alimenti destinati alla conservazione in freezer, ma anche nei processi di concimazione di verdure quali lattuga, pomodori e cetrioli. Pazienza però, a questo punto: di surgelati si può fare a meno e il concime naturale può essere un’alternativa. La birra, invece, pare proprio destinata a essere una vittima eccellente di questa guerra che non finisce.
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