Il lavoro nero non conosce crisi, specie in tempi di pandemia. Ma il lavoratore senza contratto scritto e non pagato, può tutelarsi e provare il lavoro nero?
Il lavoro in nero in Italia è una realtà consolidata da molti anni. Ora, per gli effetti della pandemia e della crisi economica, il 2021 rischia concretamente di rappresentare un anno boom per il lavoro non dichiarato al Fisco.
Ma se è vero che faremo i conti a fine anno, è altrettanto vero che a seguito della pesantissima crisi economica, tuttora sussistente, l’esercito dei lavoratori in nero in Italia è in grande espansione. A segnalarlo, qualche mese fa, è stato l’Ufficio studi della CGIA di Mestre.
L’associazione ha sottolineato che nell’ultimo anno la crisi pandemica ha portato a una perdita di circa 450mila posti di lavoro. Molti più disoccupati, insomma, e molte più persone e aziende che ora considerano l’ipotesi del lavoro in nero per risparmiare (illecitamente) sui costi.
In caso di lavoro nero è molto spesso il lavoratore a subire una situazione scomoda e di disagio. Pensiamo alle circostanze in cui il datore di lavoro non gli versi lo stipendio per più mensilità: come può tutelarsi il lavoratore? Ossia, come reagire e quali prove sono necessarie per dimostrare la condizione di lavoratore in nero e ottenere il versamento degli arretrati? Lo scopriremo di seguito.
Lavoro in nero: come dimostrarlo e quali prove servono
Lavoro in nero: che cos’è?
Molto spesso nelle notizie di cronaca si sente parlare di ’lavoro nero’, ma che cosa significa esattamente? Ebbene, con detta espressione si intende comunemente la pratica di utilizzare lavoratori dipendenti, senza aver comunicato l’assunzione al Centro per l’impiego, con tutte le relative conseguenze INPS, INAIL e così via.
Dal punto di vista giuridico, il datore di lavoro si avvale delle prestazioni professionali o lavorative di un dipendente senza che le due parti abbiano firmato un regolare contratto. In pratica, ciò significa zero garanzie per il dipendente, per il quale non scatta alcuna copertura previdenziale e assicurativa.
Le norme in materia impongono infatti ad ogni datore di lavoro di inviare un’apposita comunicazione telematica Unilav entro le ore 24 del giorno anteriore a quello di inizio rapporto. Ciò tranne che per i casi di urgenza e forza maggiore. È chiaro che l’adempimento in oggetto è utile a render noto agli enti preposti (Centri per l’impiego, Ministero del lavoro, INPS e INAIL) che si sta per avviare un rapporto di lavoro subordinato. Se non avviene detta comunicazione, lo Stato non potrà venire a conoscenza della nuova attività di lavoro subordinato. In queste circostanza, ecco palesarsi il ’lavoro nero’.
In una situazione come questa, la violazione della legge è rappresentata dal mancato versamento dei contributi all’INPS e delle tasse all’Erario: il lavoro irregolare rappresenta un danno per lo Stato, ma anche per il lavoratore. Quest’ultimo infatti vedrà accreditarsi un assegno pensionistico di importo inferiore, proprio a causa dei periodo di lavoro nero e, in particolare, del mancato versamento dei contributi.
Lavoro in nero: l’avvio della causa ordinaria con ricorso
Il lavoratore potrebbe essere portato a pensare che in mancanza di prova scritta - non essendovi di fatto un contratto redatto e sottoscritto dalle parti - sia molto impegnativo, se non impossibile, riuscire a provare la sussistenza di un rapporto di lavoro, che da diritto allo stipendio. Ma così non è.
Come accennato, oggi è purtroppo sempre più frequente che un lavoratore non regolarizzato, riceva la busta paga in contanti, senza cedolino. A parte i problemi di natura fiscale legati al mancato versamento di tasse e contributi, per il lavoratore il rischio è quello di non ricevere lo stipendio per più mensilità (pensiamo al caso tipico dell’impresa in difficoltà economica).
Per provare il lavoro in nero, è necessario avviare una causa ordinaria, con la quale mirare ad accertare il diritto al versamento degli arretrati e attraverso cui dimostrare l’orario di lavoro. In rapporto a quest’ultimo, occorre ricordare che il CCNL prevede un orario e dunque il lavoratore deve provarlo per ottenere il riconoscimento di quanto spettante.
Sarà perciò fondamentale fare affidamento sull’esperienza del proprio avvocato: questi, facendo riferimento alle norme in materia e sfruttando gli orientamenti già percorsi dal tribunale competente, potrà tutelare con efficacia il proprio cliente.
Il legale di fiducia depositerà così in tribunale un regolare ricorso. Da rimarcare che il termine per agire è assai esteso: per far partire la causa ordinaria, vi sono fino a cinque anni di tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro in nero. Trascorsi i cinque anni il diritto si prescrive.
Attenzione però a questo dettaglio degno di nota: non sarà possibile avviare il più agevole iter del decreto ingiuntivo, giacché per esso è obbligatorio avere in mano una prova scritta (come ad es. una certificazione unica), che nel caso del lavoro in nero non può essere fornita.
Lavoro in nero: il rilievo delle prove tipiche e delle prove atipiche
Il lavoratore che intende dimostrare il lavoro in nero per far emergere l’illecito e ottenere quanto spettante, dovrà - per il tramite del suo avvocato - fare riferimento a quelle che nel Codice di procedura civile, sono denominate ’prove tipiche’, vale a dire le prove che sono ammissibili in aula di tribunale.
Non solo le prove scritte rientrano nelle prove tipiche, ma anche quelle orali, che possono avere un rilievo decisivo proprio in cause come queste. Ci riferiamo alla già citata testimonianza (ad es. di un cliente o di colui che ha avuto rapporti di qualsiasi tipo con l’azienda citata in giudizio) e alla confessione del datore di lavoro.
In verità, il lavoratore che intende dimostrare in tribunale il lavoro in nero, può anche avvalersi delle cd.prove “atipiche”, ossia quelle non menzionate dal Codice di procedura civile, ma comunque ammesse e utilizzabili in giudizio, come foto, messaggi sul cellulare, registrazioni video o audio, dove emerga una interazione tra datore di lavoro e lavoratore e dunque la presenza del rapporto di lavoro non in regola e di un orario di lavoro.
Lavoro in nero: la rilevanza dell’onere della prova
In sostanza, ogni volta in cui un dipendente deve far accertare a un giudice l’esistenza di un rapporto di lavoro in nero è investito da quello che è chiamato ’onere della prova’. Spetta allo stesso dipendente dare tutti i riscontri obiettivi della pretesa azionata in giudizio. Ed è noto a tutti che le cause si vincono o si perdono non tanto sulla base della sussistenza del diritto, ma delle prove di esso.
Per far valere i propri diritti, il lavoratore in nero dovrà, attraverso il suo legale di fiducia, fare un regolare ricorso al tribunale sezione lavoro. In questa sede, chiederà al giudice competente, all’esito di una regolare causa, la condanna del datore di lavoro. L’iter processuale non è breve, pur essendo il rito del lavoro teoricamente più veloce di quello ordinario.
Con riferimento all’onere della prova, il processo si articolerà in due distinte attività:
- la prima fase, attiene alla prova dell’esistenza del rapporto tra lavoratore subordinato in nero e datore di lavoro. Detta prova ricade sul lavoratore, che dovrà altresì provare l’orario di lavoro, giacché quando si tratta di differenze retributive, il CCNL dispone un orario e dunque occorre provarlo, per ottenere riconoscimento di quanto spettante;
- la seconda fase, invece attiene alla sussistenza del credito: in questo caso è il datore a dover provare di aver pagato al lavoratore tutte le somme dovute per legge. All’azienda spetta insomma di dover attestare l’effettivo versamento dello stipendio in base ai minimi tariffari; la tredicesima; la quattordicesima; la fruizione dei permessi; ferie e così via.
Dal punto di vista pratico, è evidente che se l’azienda non ha una quietanza di pagamento scritta, dovrà essere condannata al nuovo versamento al lavoratore di tutte le somme dall’inizio alla fine del rapporto di lavoro, con i correlati contributi. Invece, se dovesse emergere una prova scritta del pagamento dello stipendio, sarà necessario controllare se questo corrisponde esattamente a quanto disposto dal CCNL di riferimento.
In particolare, per dimostrare l’orario di lavoro, il lavoratore potrà contare sull’eventuale apporto delle prove testimoniali. Infatti, il dipendente può sfruttare, a fini probatori, le dichiarazioni di terzi che lo hanno visto compiere le mansioni. Si tratta di clienti, fornitori, ma anche familiari o amici che abbiano fatto visita al lavoratore sul luogo di lavoro.
Grazie alla prove, anche testimoniali, troveranno conseguentemente riconoscimento tutti i tipici diritti valevoli per i lavoratori assunti con un contratto regolare.
Provare il lavoro in nero: le alternative alla causa
Ricordiamo altresì che la legge vigente prevede percorsi diversi dalla causa ordinaria. Interessante è l’opportunità del tentativo di conciliazione presso un sindacato o dinanzi all’Ufficio Territoriale del Lavoro.
Certamente scegliere una strada diversa da quella del classico ricorso in tribunale potrà far risparmiare tempo al lavoratore che intende provare il lavoro in nero. Inoltre, ambo le procedure alternative sono a costo zero e dunque presentano anche un indubbio vantaggio in termini economici.
Detti uffici di conciliazione avranno di fatto il compito di far trovare alle parti un punto di incontro, conducendo così il datore di lavoro a ravvedersi e a far fronte ai propri errori.
Inoltre, è da rimarcare per completezza che il tentativo di conciliazione può essere effettuato anche in udienza. In ogni caso, scegliere un iter alternativo a quello del giudizio, non esclude la possibilità di avviare una causa ordinaria successivamente.
Cosa succede se si riesce a provare il lavoro in nero?
È chiaro che se il lavoratore riuscirà a provare in giudizio il lavoro in nero, il giudice potrà accogliere le sue domande. Avremo dunque una sentenza di condanna, per la quale l’azienda dovrà versare tutte le mensilità per le quali non sia stata data controprova dell’erogazione. E ciò dalla data di inizio del rapporto fino alla data della fine del rapporto di lavoro. Gli importi cui far riferimento sono ovviamente quelli minimi di cui al CCNL di categoria. Per il datore poco incline al rispetto dei doveri di legge, si profila dunque un conto molto salato da pagare.
Non deve stupire che nella sentenza di condanna trovino spazio anche le ferie, l’eventuale TFR, i permessi e i contributi previdenziali. Per questa via, l’azienda dovrà finalmente regolarizzarsi e far fronte a tutti i propri doveri.
Concludendo, è chiaro che la legge vigente riconosce dunque adeguata protezione anche a chi lavora, ma senza un aver firmato un regolare contratto scritto.
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