La Germania pronta a ripristinare la leva obbligatoria prendendo come modello quello scandinavo. In Italia non è un argomento all’ordine del giorno.
L’Europa riscopre la leva militare (semi) obbligatoria: dopo la Svezia che l’ha ripristinato nel 2017 e altri Paesi scandinavi che non l’hanno mai abbandonata, è la volta della Germania che proprio al modello svedese ha deciso di ispirarsi.
Una notizia che arriva dopo l’approvazione del piano UE con il quale sono state definite le strategie affinché l’Europa possa dotarsi di un’industria della difesa più efficiente così da far fronte alle minacce provenienti dalla Russia, a dimostrazione che non c’è ottimismo per quanto riguarda l’evoluzione del conflitto in Ucraina.
Chi più e chi meno sta iniziando a prepararsi a quello che sarebbe lo scenario peggiore, ma comunque non da escludere, con un attacco della Russia in Europa. Per questo motivo è notizia di queste ore che il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha dato mandato di preparare un decreto che ripristina la leva obbligatoria in Germania con l’obiettivo di rendere più rapida un’eventuale chiamata alle armi.
Una decisione che per il momento resta isolata alla Germania, per quanto non sia da escludere che anche altri Paesi, tra cui l’Italia, possano valutare un tale sistema in quanto rappresenta un valido compromesso alla leva obbligatoria - che in Italia non c’è più dal 2004 (su disposizione della cosiddetta Legge Martino) - e le attuali regole che potrebbero rendere complicato reclutare soldati in caso di necessità.
Come funziona il modello svedese per la leva (semi) obbligatoria
Come spiegato dal settimanale Spiegel, il servizio militare obbligatorio (Wehrpflicht) dovrebbe essere reintrodotto in Germania entro la fine della legislatura contribuendo alla “resilienza complessiva dello Stato”.
Nella proposta di legge si guarderà al modello già ripristinato in Svezia dal 2007, dove, i cittadini di entrambi i sessi al compimento dei 18 anni devono rispondere a un formulario online con domande inerenti allo stato di salute (fisica e mentale), al livello di educazione scolastica raggiunto e ai propri interessi, esprimendo inoltre un loro giudizio rispetto alla possibilità di effettuare il servizio militare (con possibile chiamata alle armi in caso di necessità).
Su un totale di circa 100 mila giovani che rispondono al questionario ne vengono selezionati circa 13 mila, di cui solamente 4 mila saranno effettivamente arruolati. Per adesso, considerando un 4% di reclutamenti, è ridotta al minimo la possibilità di reclutare giovani contro il loro volere, per quanto in futuro potrebbe andare diversamente visto che non si esclude la possibilità di arrivare a 10 mila reclutamenti l’anno.
Il periodo di leva ha una durata che varia in base al ruolo che si sceglie di ricoprire e solitamente va da un minimo di 9 a un massimo di 12 mesi. Dopodiché per chi non continua la carriera militare possono esserci dei periodici periodi di formazione e aggiornamento che si concludono al compimento dei 47 anni.
Un modello simile c’è in Norvegia, dove la leva obbligatoria non è mai stata eliminata, ma con percentuali di reclutamento maggiori (circa il 13% dell’intera classe di leva) e un periodo di ferma iniziale di 12 mesi a cui se ne aggiungono altri 7 per i futuri richiami di tipo addestrativo.
E l’Italia?
Nel nostro Paese il dibattito sul ripristino della leva obbligatoria non è entrato nel vivo nonostante il leader della Lega, Matteo Salvini, si sia sempre espresso favorevolmente in merito a una tale possibilità pur escludendo un ritorno alle regole del passato.
Anche perché va detto che la necessità non sarebbe tanto di soldati da inviare a combattere, quanto più di avere personale a cui attingere nei casi di grave emergenza nazionale e da impiegare per compiti di “seconda linea”.
Servirebbe quindi un modello adeguato per far sì che anche il nostro Paese possa avere a disposizione un esercito di “riservisti” pronti a intervenire in caso di crisi.
Al momento non se ne sente l’esigenza ma non è da escludere che gli sviluppi internazionali, nonché un aumento del numero di Paesi che si muovono in tal senso, possano portare il governo a riflettere su una tale ipotesi. Che per adesso non è comunque all’ordine del giorno.
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