Un anno dopo il licenziamento del 90% del personale, Suumit Shah celebra i successi del suo chatbot AI, ma a quale costo?
Nel luglio del 2023, Suumit Shah, il CEO della piattaforma indiana di e-commerce Dukaan, ha deciso di scrivere una pagina controversa nella storia dell’automazione. Nel pieno delle pressioni per aumentare la redditività, ha scelto di licenziare il 90% del personale dedicato al servizio clienti, sostituendolo con un chatbot basato sull’intelligenza artificiale. Una mossa radicale, accolta da reazioni che oscillano tra l’ammirazione e l’indignazione.
Da una parte, i sostenitori di Shah hanno definito questa decisione un esempio brillante di come l’IA possa trasformare le aziende. Dall’altra, critiche feroci lo hanno accusato di disumanità, chiedendosi quanto sia giusto sacrificare posti di lavoro in nome dell’efficienza tecnologica. Il dibattito ha incendiato i social, dove si sono moltiplicate le accuse di mancanza di empatia e le riflessioni su un mondo sempre più automatizzato.
Efficienza a costo zero?
A un anno da quella decisione, Shah ha tirato le somme. Secondo i dati che lui stesso ha condiviso, il chatbot ha permesso a Dukaan di raggiungere risultati impressionanti: tempi di risposta praticamente istantanei e una drastica riduzione del tempo necessario per risolvere i problemi dei clienti. Non solo i clienti sembrano più soddisfatti, ma l’azienda ha tagliato costi in modo significativo. Per Shah, questa è la conferma del potenziale rivoluzionario dell’intelligenza artificiale.
Ma la narrazione non è tutta rose e fiori. L’onda lunga delle critiche persiste, e l’entusiasmo per i numeri cozza con il ricordo di quei licenziamenti improvvisi, che molti hanno vissuto come una brutale dimostrazione di insensibilità. Infatti, secondo le fonti, all’interno dell’azienda rimane un nervosismo latente. In un sistema economico come questo, automatizzare il lavoro umano è davvero la strategia migliore? E fino a che punto ci si può spingere senza perdere di vista gli ultimi limiti etici?
L’automazione e il futuro del lavoro
Shah non sembra avere dubbi: questa è solo la prima mossa di un piano più ampio. L’idea è replicare l’esperienza del servizio clienti anche in altre aree dell’azienda, affidando all’intelligenza artificiale i compiti ripetitivi per liberare risorse umane da destinare a ruoli strategici e innovativi.
Tuttavia, la questione è più complessa. Uno studio di Goldman Sachs pubblicato nel marzo 2023 ha stimato che l’automazione potrebbe sostituire ben 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno in tutto il mondo. Certo, la tecnologia potrebbe anche creare nuove opportunità in campi ancora da definire, ma resta il problema di come garantire una transizione sostenibile e quindi rispettosa dei diritti dei lavoratori.
Promesse e dilemmi
Quella di Dukaan è una storia che rispecchia il più grande paradosso della rivoluzione tecnologica. Da un lato, l’automazione offre efficienza, competitività e risparmi che nessun imprenditore può ignorare. Dall’altro, però, c’è un prezzo umano che non si misura solo in posti di lavoro persi, ma anche in dignità e stabilità sociale.
Non mancano approcci alternativi. Forvis Mazars, una società di consulenza, ha investito oltre un milione di euro per formare migliaia di dipendenti sull’uso dell’intelligenza artificiale. L’obiettivo non è sostituire le persone, ma migliorare la loro produttività grazie alla tecnologia. Un modello opposto a quello di Shah, che quindi solleva una domanda cruciale: è possibile far convivere automazione e lavoro umano senza creare ulteriori squilibri?
Un destino incerto
La storia di Dukaan è certamente un simbolo di una rivoluzione tecnologica, ma è anche il riflesso di un sistema economico che antepone il profitto alla dignità umana. La sostituzione del lavoro umano con l’automazione, che viene proposta come semplice “progresso”, si inserisce in una logica capitalista che da sempre cerca di massimizzare il plusvalore riducendo i costi del lavoro. L’AI, in questo contesto, diventa uno strumento di estrazione del valore, che accentua lo sfruttamento e approfondisce le disuguaglianze, spingendo i lavoratori verso l’alienazione.
Il caso Dukaan è l’ennesima manifestazione di un sistema che espropria il lavoratore non solo dei mezzi di produzione, ma ora anche delle competenze e del ruolo stesso nel processo produttivo. La promessa che l’intelligenza artificiale liberi l’uomo da compiti ripetitivi per dedicarsi ad attività creative si scontra con una realtà in cui il lavoro creativo rimane infine appannaggio di pochi, mentre le masse vengono espulse dal ciclo produttivo senza alternative reali.
Tra sfruttamento e alienazione
Questa non è solo una questione di “transizione tecnologica”, ma di controllo dei mezzi di produzione. Finché l’AI resterà nelle logiche attuali, sarà difficile immaginarla come uno strumento di emancipazione collettiva. Per questo, il futuro che Shah celebra come inevitabile appare però profondamente squilibrato, una rincorsa verso un progresso disumanizzante che rischia di lasciare dietro di sé solo precarietà e nuove forme di sfruttamento.
In un mondo dove la tecnologia avanza più rapidamente della capacità collettiva di governarla, la vera domanda non è solo come useremo l’AI, ma a chi apparterrà e a quali fini sarà diretta. Senza una trasformazione radicale della società, l’automazione rischia di essere non il preludio di un’utopia, ma l’ennesima tappa verso una distopia ancora più spietata.
© RIPRODUZIONE RISERVATA