Lo studio dell’Università di Cambridge sui consumi per l’estrazione delle criptovalute evidenzia un lento passaggio alle alternative green, ma l’industria del mining non è dello stesso avviso.
L’impatto economico e ambientale del mining, il processo tramite il quale vengono generate nuove unità di Bitcoin e altre criptovalute, è tutt’altro che trascurabile. Secondo un’analisi sul tema condotta dall’Università di Cambridge, chiamata Cambridge Bitcoin electricity consumption index (Cbeci), nel 2022 la situazione non è migliorata più di tanto rispetto al 2021. A gennaio le fonti fossili costituivano il 62% del mix energetico utilizzato per la creazione dei Bitcoin, appena il 3% in meno rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. L’uso delle fonti rinnovabili è passato dal 35% al 38%: si tratta di un passo avanti ma non sufficiente a rendere l’attività di estrazione sostenibile.
Andando più nello specifico, il consumo del carbone per il mining dei Bitcoin è sceso dal 47% di gennaio 2021 al 37% di gennaio 2022. Tuttavia, il gas è diventato una parte importante del mix energetico dell’attività, arrivando a rappresentarne circa un quarto (l’anno scorso era al 16%). Tale incremento non è stato privo di conseguenze, soprattutto considerando che nel corso degli ultimi mesi questa fonte energetica, esportata soprattutto dalla Russia, è diventata più dispendiosa e difficile da reperire.
I dati del Bitcoin mining council
Si possono notare delle notevoli discrepanze tra il Cambridge Bitcoin electricity consumption index e un altro studio simile, condotto negli Stati Uniti dall’associazione industriale Bitcoin mining council. Questa seconda ricerca indica che il 60% dell’energia necessaria per generare nuove unità della criptovaluta arriva dalle fonti rinnovabili. Si tratta di una percentuale molto lontana da quella riportata nel Cbeci e che presupporrebbe una notevole variazione del mix energetico alla base del mining nell’arco di un anno.
È opportuno precisare che non esiste un sistema regolato e trasparente per la raccolta di dati relativi al mining dei Bitcoin. Gli esperti dell’Università di Cambridge hanno basato la propria ricerca sulle informazioni disponibili in merito alla diffusione geografica dell’attività di estrazione della moneta virtuale e sul mix energetico usato in ognuno dei Paesi coinvolti. Supponendo che i dati contenuti nel Cbeci siano quelli corretti, è possibile comunque notare alcuni progressi poiché il 2022 dovrebbe chiudersi con circa il 14% delle emissioni di CO2 in meno rispetto all’anno precedente.
Le conseguenze della dipendenza dal gas
Gli esperti sottolineano che la dipendenza dal gas porta con sé ulteriori criticità. Una di esse è legata all’aumento dei costi energetici, che hanno avuto un impatto notevole sui ricavi delle aziende specializzate nel mining dei Bitcoin. Il totale giornaliero è passato da 62 milioni di dollari a novembre 2021 agli attuali 17,2 milioni: si tratta di un crollo del 72%, imputabile sia alla crisi energetica che alla perdita di valore della criptovaluta. Non è un mistero, infatti, che nel corso dell’ultimo anno il Bitcoin abbia subito una flessione delle valutazioni. Se verso la fine del 2021 la moneta virtuale valeva 69.000 dollari, ora viene scambiata per 19.000 dollari e potrebbe essere un buon momento per investire scegliendo un exchange italiano come Cryptosmart poiché in questo caso gli investimenti in criptovalute non sono considerati attività detenute all’estero.
Le aziende che negli ultimi mesi hanno acquistato i mining rig, degli hardware necessari per generare nuovi Bitcoin, si sono trovate in difficoltà, anche a causa di un numero di concorrenti sempre maggiore. Per ottenere un vantaggio sui competitor sono state costrette ad aumentare la velocità di estrazione, andando di conseguenza a incrementare i consumi energetici. Attualmente i profitti per un terahash al secondo di potere computazionale fluttuano tra gli 0,119 e gli 0,070 dollari al giorno, mentre a novembre 2021 la cifra si aggirava attorno a 0,45 dollari al giorno.
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Verso un futuro più sostenibile?
Di fronte ai dati del Cbeci è difficile pronosticare un futuro sostenibile per le criptovalute, perlomeno nel breve periodo. Tuttavia ci sono alcune iniziative che potrebbero portare il settore in una direzione differente, rendendolo un po’ meno dipendente dalle combustibili fossili. Ethereum, per esempio, ha da poco concluso con successo una prova generale dell’aggiornamento in ottica green del suo metodo di estrazione, che potrebbe diventare lo standard entro fine anno, quantomeno per questa moneta digitale. La nuova modalità prevede la fusione della catena EH1 della criptovaluta con una nuova catena, creata per realizzare ETH2 su una piattaforma blockchain, e nel passaggio dal metodo di estrazione proof-of-work, che consuma grandi quantità di energia, al meno dispendioso proof-of-stake. Se questo passo avanti dovesse rivelarsi vincente potrebbe diventare la base per rendere più sostenibile il mining di altre criptovalute.
Sul fronte delle aziende specializzate nel mining, alcune società statunitensi vogliono invece sfruttare il momento di crisi del mercato per acquistare dei mining ring a un prezzo scontato e usarli per estrarre i Bitcoin con energia generata al 100% da fonti rinnovabili.
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