Crescita salari insoddisfacente per i giovani lavoratori. Qual è il modo per invertire la rotta? La proposta Mercer pone degli interrogativi.
Nella coscienza collettiva la convinzione che l’Italia sia uno degli Stati con il miglior livello di istruzione universitaria è ben radicato, ma i dati ci dicono che questa convinzione non trova poi riscontro nelle retribuzioni che i neolaureati italiani percepiscono alla fine del loro brillante percorso formativo.
Un vanto forse può essere tale solo se, accanto al titolo nominale, produce anche frutti concreti e tangibili per chi investe tempo e spesso anche denaro nella propria formazione. A denunciare questo triste fenomeno di disallineamento tra competenze e retribuzione giovanile è uno studio dell’Osservatorio sul capitale umano di Mercer - società di consulenza che da 24 anni analizza i trend del mercato del lavoro in Italia e nel mondo. In vetta alla classifica dei Paesi UE che riescono a garantire solide realtà finanziarie ai neolaureati ci sono in ordine ascendente Belgio, Germania e Svizzera.
Per dare una misura, a Berlino un neolaureato alle prime armi riesce a conquistare un stipendio annuo lordo di oltre 50mila euro, a Bruxelles tocca quasi 45mila euro. In Italia invece la quota è 29.000 euro.
Confrontiamo però tutte le cifre e capiamo i reali valori del nostro Paese, quasi maglia nera insieme alla Spagna e alla Polonia anche se non in tutti i settori.
Classifica europea: posizionamenti a confronto
Lo studio preso come riferimento ha valutato l’ammontare in euro degli stipendi tramite il confronto tra il 2018 e il 2021. Qui di seguito vi riportiamo i valori dei due anni e la conseguente variazione percentuale:
- Polonia 11.174 - 12.298 (10,1%)
- Spagna 25.000 - 25.813 (3,3%)
- Italia 28.000 - 29.000 (3,6%)
- Inghilterra 28.938 - 30.837 (6,6%)
- Francia 35.000 - 35.000 (0%)
- Svezia 34.416 - 38.986 (13,3%)
- Olanda 39.211 - 39.900 (1,8%)
- Belgio 42.000 - 44.550 (6,1%)
- Germania 45.536 - 52.229 (14,7%)
- Svizzera 72.259 - 74.621 (3,3%)
Da questo quadro appare evidente come il problema nostrano sia lo scarso tasso di crescita del livello salariale dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro oltre che le somme in sé per sé.
Una parabola discendente che viene tracciata anche dall’Ocse tramite il rispecchiamento sulla produttività. Il disincentivo la fa letteralmente colare a picco. Riepilogando l’andamento recente possiamo infatti dire che tra il 1995 e il 2018 la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia è stata dello 0,4% rispetto a una media europea dell’1,6 per cento. Gli anni peggiori sono stati il 2018 e il 2019 con una contrazione dello 0,3% nel 2018 e dello 0,4% nel 2019. Questi parametri si ottengono tramite la comparazione con il capitale corrispettivo, ma dobbiamo fare alcuni distinguo. La situazione italiana infatti varia da settore a settore, non tutte le categorie vengono colpite ugualmente dalle infelici politiche di retribuzione.
Italia: i settori che pagano di più
Non tutti i settori subiscono lo stesso impatto in negativo, anzi.
Secondo l’analisi di Mercer i livelli retributivi di ingresso più alti in Italia sono nel settore farmaceutico-life scienze (+7% rispetto alla media con 30.930 euro) e nel largo consumo (+2% con 29.674 euro annui). Quote mediane o quasi invece vanno all’high tech (+1%) e l’automotive, il solo a restare stabile. In negativo invece l’industria, l’energia e i servizi non finanziari - tre fette importanti del mercato italiano.
Mariagrazia Galliani, responsabile mobility&data di Mercer Italia, commenta così le stime:
«Questi dati riflettono sostanzialmente le dinamiche retributive tipiche tra settori. Sebbene un occhio di riguardo dovrebbe essere dato al settore high tech che ci aspettiamo possa avere una crescita significativa nei prossimi due anni. La ragione è da ricercarsi in un primo fenomeno inedito pre-pandemia, ossia la forte spinta alla digitalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi due anni e che ha portato le aziende a ricercare sempre di più professionalità tecnico-informatiche».
In corso quindi quella che Galliani ha definito «guerra dei talenti». Le aziende italiane però, secondo la dottoressa, per restare competitive dovrebbero «focalizzarsi su un ripensamento dell’offerta retributiva». Secondo l’esperta però ciò non consiste nell’offrire stipendi più elevati poiché «contribuirebbe soltanto a gonfiare la “bolla”» in quanto «i giovani si spostano da una posizione all’altra con grande fluidità».
La risposta sarebbe piuttosto «ripensare profondamente alla propria employee value proposition in una logica di flessibilità e distintività/unicità», un parametro che tiene insieme possibilità di remote working alternato con lo stimolo del contesto d’ufficio in chiave di costante formazione e condivisione.
Dare ai dipendenti un motivo non pecuniario per restare è veramente abbastanza? La guerra (o meglio la fuga) dei talenti può davvero essere arginata senza mettere mano ai fondi aziendali?
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