L’addio alle pensioni anticipate sembra essere la migliore soluzione per la salvaguardia dei conti pubblici. Ma la verità è che si tratterebbe di un rischio politico troppo grande per il governo.
Per il 2025 il governo dovrà decidere cosa fare delle pensioni, o meglio quanto - e se - investire in questo ambito.
Non è un segreto, infatti, che per la prossima legge di Bilancio il governo dovrà fare delle scelte oculate, considerando dei vincoli di spesa molto più restrittivi rispetto a quelli in vigore negli ultimi anni. A tal proposito, non è stato nascosto che l’obiettivo principale prevede la conferma dello sgravio contributivo in busta paga, il cosiddetto taglio del cuneo fiscale, che da solo costerà circa 10 miliardi di euro.
Gran parte delle risorse stanziate con la manovra, quindi, sembrano essere già prenotate: il che significa che lato pensioni non dovrebbero esserci novità rilevanti, almeno in positivo.
Ma visto il contesto c’è persino chi teme che per le regole di pensionamento possa esserci un peggioramento rispetto a quanto succede oggi, con l’addio alle misure di flessibilità che consentono di andare in pensione in anticipo e il ritorno integrale alle regole fissate dalla legge Fornero per le pensioni di vecchiaia.
Anche perché la spesa effettuata sulle pensioni in questi ultimi anni è stata rilevante, come confermato dal governo stesso nel Documento di economia e finanza.
Un investimento corposo, che paradossalmente ha consentito a un numero limitato di persone di smettere di lavorare in anticipo. Figuriamoci quindi cosa succederebbe nel caso in cui dovesse esserci una misura, come Quota 41 per tutti, che si rivolge a una platea più ampia: in tal caso i costi potrebbero essere davvero insostenibili.
Dire addio alle pensioni anticipate e ritornare esclusivamente a quanto disposto dalla Fornero, quindi, sarebbe la soluzione migliore per i conti pubblici. Ma la verità è un altra, in quanto il governo non sembra voler correre il rischio di perdere quei consensi ottenuti proprio grazie alle promesse fatte sul fronte pensioni.
Quanto ha speso l’Italia negli ultimi 6 anni per assistenza e previdenza
Dal 2019, con l’arrivo della Lega al governo (insieme al Movimento 5 stelle), la spesa per le pensioni è lievitata notevolmente. Inizialmente c’è stata Quota 100, in vigore fino al 2021: dopodiché il governo Draghi ha dovuto necessariamente prevedere Quota 102 per limitare il numero di “esodati”.
Con l’avvio del governo di Centrodestra è stata la volta di Quota 103, in vigore nel 2023 e nel 2024 (ma nell’ultimo anno con ricalcolo contributivo dell’assegno per chi vi ricorre).
Un’operazione che come certificato dal Def ha contribuito a incrementare, negli ultimi 6 anni, di 70 miliardi di euro la spesa per previdenza e assistenza. E persino peggio andrà in futuro: nel 2027, infatti, si prevede che verranno sfiorati i 100 miliardi di euro (99,6 per l’esattezza) di incremento.
Vero che non è tutta colpa delle misure di flessibilità, ma queste sono comunque ta le ragioni principali dell’aumento dei costi. Nel Def, infatti, si legge che “a trainare la spesa sono state le misure dirette ad anticipare il pensionamento rispetto ai requisiti ordinari”, con l’aggiunta poi delle misure assistenziali come il Reddito di cittadinanza e gli interventi a sostegno della famiglia, come appunto l’Assegno unico.
Pensioni osservate speciali
Alla luce della suddetta situazione, il capitolo pensioni è tra quelli che stanno richiedendo il maggior approfondimento da parte dei tecnici del ministero dell’Economia e finanza dove le idee comunque sembrano essere piuttosto chiare: come spiegato già lo scorso anno dal ministro dell’Economia e delle finanze, il leghista Giancarlo Giorgetti, oggi l’Italia non può sostenere una riforma delle pensioni, complice anche il basso tasso di natalità che in futuro potrebbe comportare una netta riduzione delle entrate contributive dell’Istituto.
Cosa succederà?
Al momento è ancora presto per rispondere alla domanda su cosa ne sarà delle pensioni, in quanto sono diversi gli scenari possibili.
Come anticipato, è da escludere che possa esserci - né ora né mai, almeno per i prossimi 10 anni - un intervento volto a superare la legge Fornero come invece era stato promesso da Matteo Salvini in campagna elettorale. Così come non ci sono speranze rispetto alla possibilità che le pensioni minime possano salire a 1.000 euro, obiettivo ambizioso tanto caro a Forza Italia in quanto rappresenta una delle tante “eredità” lasciate da Silvio Berlusconi.
A questo punto le strade sono due: da una parte potrebbe esserci un addio totale alle misure di flessibilità e di fatto un ritorno integrale alle regole fissate dalla legge Fornero. Niente più Quota 103 quindi, e anche l’Ape Sociale e Opzione Donna potrebbero essere archiviate.
Dall’altra, invece, si potrebbe proseguire con il percorso già tracciato dall’ultima legge di Bilancio con la quale, nonostante il governo abbia difficoltà ad ammetterlo, il capitolo pensioni è stato utilizzato per recuperare risorse da destinare ad altre misure.
Quota 103 con penalizzazione in uscita, quindi, potrebbe essere confermata ancora per un anno, così come Opzione Donna (che comunque alle condizioni attuali interessa un numero limitato di lavoratrici) e l’Ape Sociale. Per l’aumento delle pensioni minime, invece, ci potrebbe essere la conferma della rivalutazione straordinaria del 2,7% in vigore nel 2024.
Tutto, quindi, rimarrebbe così com’è, con il governo che per lo meno eviterebbe l’impatto mediatico di un ritorno integrale alle regole della Fornero. Con buona pace dei conti pubblici.
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